sabato 26 gennaio 2013

Due passi in spiaggia a fine inverno

Parcheggio l’auto sul lungomare. Ho un paio d’ore da ammazzare in questo pomeriggio di fine inverno.

Attraverso a piedi uno stabilimento balneare chiuso e decido di proseguire lungo la battigia fino alla foce.

Un uomo in acqua setaccia il fondale con un rastrello: deve pescare vongole o telline. E’ intabarrato per il vento pungente nonostante la giornata di sole. Indossa stivali di gomma alti fino alle coscie.

In lontananza mi viene incontro lentamente una coppia di anziani con un cane. Paiono stanchi tutti e tre, cane compreso, come se rientrassero da una lunga camminata. Non si dicono niente, non parlano. Ci incrociamo senza il cenno di un saluto, come se fossimo qui furtivamente: a pescare di frodo, a rubare un po’ di sole, a fare due passi senza che nessuno ci veda.

Sulla spiaggia ci sono i resti delle mareggiate invernali: rami, tronchi, contenitori di plastica, grovigli di corde malandate. Reti da pesca strappate, una boa rossa, conchiglie ovunque.

Le palazzine nei dintorni hanno le tapparelle abbassate e le persiane chiuse. Gli appartamenti disabitati per tutto l’inverno devono essere gelidi e sapere di muffa.

Una barca a vela naviga a motore verso sud, l’albero nudo senza randa, nessuno in vista a bordo. Sulla linea dell’orizzonte spiccano le piattaforme per l’estrazione del gas. Da quella più vicina alla costa arriva regolare il segnale di tre toni brevi e uno lungo per la nebbia.

Alla foce su entrambe le sponde del fiume le massicciate proteggono l’estuario dalle fiumane e dalle onde. Capanni da pesca chiusi. Due persone si riparano dal vento sul retro di un capanno. Sembrano barboni. Fumano stringendosi nelle spalle. Hanno un cane che mi fissa immobile, non mi toglie gli occhi di dosso.

Penso che il mare non ami niente di superfluo e che un luogo come questo non abbia bisogno di parole pronunciate. Qui ogni persona, ogni cosa appare essenziale nella sua futile presenza.

E’ un pensiero come un altro che non posso rivelare a nessuno. Lo tengo per me. Fino ad ora.

sabato 19 gennaio 2013

Firenze during holidays

Dariusz

Il nonno di Dariusz - quando Dariusz era ancora un bambino - gli da due monete identiche, ciascuna da uno Zloty e gli dice: con questa compri il latte e con questa due panini.

E’ un bambino di sei anni, biondo, occhi azzurri, contento di avere un compito da assolvere per suo nonno. Abita nella periferia di Varsavia: case di legno, boschi di betulle, binari assediati dall’erba, una strada provinciale lungo l’argine della Vistola e una pianura che si perde a vista d’occhio. Non lo sa, ma è un paesaggio che si ripete uguale dalle porte di Vienna fino a Vladivostok.

Quando Dariusz arriva al negozio estrae dalla tasca le due monete. Resta immobile, dubbioso, davanti alla commessa che lo guarda con un’espressione neutra.

Il bambino torna indietro, attraversa di corsa campi, radure, vicoli alberati. Non si accorge del vento che fa tremare le betulle, non saluta gli amici che incontra, perché il suo unico pensiero è rientrare a casa.

Entra, trova il nonno seduto vicino alla finestra e gli chiede: “quale moneta è per il pane e quale per il latte?”

venerdì 11 gennaio 2013

Il tè

Il tè con Alessandro lo bevo alla russa. Non in una tazza di ceramica, ma in un bicchiere di vetro.

In più lui ha questo vezzo di chiedermi due bicchieri. Glielo verso. Lo addolcisce con mezzo cucchiaino di zucchero. Mescola senza tintinnare sul vetro e prende a rovesciarlo da un bicchiere all’altro.

Invece di attendere qualche minuto, come faccio io, lui lo versa ripetutamente e in questo modo il tè da rovente diventa bevibile.

Resto a guardare in silenzio il suo rituale e penso.

Penso al tè denso di miele e foglie di menta bevuto ad Algeri. Ai bicchierini dalla forma sensuale nei quali servono il tè a Istambul. Al vetro sottilissimo che scotta le dita dei bicchieri con cui mi offrono il tè i clienti in Polonia. E il soggiorno di casa mia diventa la sala di un bar di Meknes, la tenda mongola fatta di un unico ambiente dove sorseggiamo il tè seduti su grandi tappeti, lasciando trascorrere a piccoli sorsi il tempo che rallenta, si ferma e prende un sapore asiatico.