sabato 23 giugno 2012

Il mondo finisce oggi pomeriggio alle tre - I

Quel giorno ci avevano detto che il mondo sarebbe finito alle alle tre del pomeriggio. Avevamo trascorso l’intera mattina a giocare a strega in alto in una strada chiusa davanti a casa mia. Il pomeriggio l’avremmo passato in un deposito di bibite abbandonato, all’angolo di via Lametta. Era un luogo circondato da una vecchia rete metallica piena di buchi e di passaggi per cui era facile entrare, percorrere velocemente il cortile infestato di erbacce e nascondersi dietro cataste di casse contenenti vuoti di bottiglie. Bottiglie di aranciata, di cola, di chinotto e d’acqua.
Oltre alle pile di casse c’era un edificio basso, fatiscente, con le finestre dai vetri rotti e le porte sfondate. Si poteva entrare, ma erano pochi quelli che osavano abbandonare la luce del sole per addentrarsi in quel meandro di ragnatele, vetro in frantumi, scontrini sbiaditi e foglie secche. Avevamo sognato più di una volta di trovare dentro all’edificio un tesoro, che per noi, bambini di sei, sette e undici anni, poteva essere anche solo qualche spicciolo, un quaderno ammuffito dove scarabocchiare i piani delle nostre battaglie, una bottiglia ancora intatta. Ma nonostante le ripetute perlustrazioni non abbiamo mai trovato niente. Nemmeno i tappi di bottiglia erano più utili per il nostro gioco cicca e spanna, arrugginiti e piegati com’erano.

Il mondo finisce oggi pomeriggio alle tre - II

Andrea quel giorno era stato il primo a salire sul tetto dell’edificio e da lassù prendeva di mira chi rimaneva a terra con bacche di palma e fogli di carta arrotolati a spirale tirati con la cerbottana. Le bacche erano i proiettili migliori, perfetti per le nostre strette cerbottane. Saccheggiando le palme delle case vicine potevi riempirti le tasche e avere munizioni per lunghe ore di battaglia.
Mi dicevo che da grande avrei piantato una palma nel giardino per avere tutte le bacche che volevo. Poi pensavo che da grande non avrei giocato a cerbottana e che comunque quel pomeriggio alle tre il mondo sarebbe finito.
La notizia ce l’aveva data Emanuele, il più grande del gruppo. Emanuele aveva la stessa età di Andrea, ma sembrava avesse più anni di lui e anche se era il più antipatico aveva una certa autorevolezza. Nessuno gli domandò chi gliel’aveva detto. Ci limitammo a chiedergli a turno se ne era sicuro e lui diceva serio sì, oggi alle tre.

Il mondo finsice oggi pomeriggio alle tre - III

Il cortile del deposito di bibite era circondato da tre enormi pioppi e in quel periodo lasciavano cadere i pappi che creavano una coltre lanuginosa tutto intorno alla recinzione, si appiccicavano ai pantaloni, si infilavano nelle scarpe e qualcuno per gioco li spargeva sui capelli.
La giornata era grigia, senza vento, poche auto in giro e nessuna vecchietta in bicicletta di passaggio: il nostro bersaglio preferito.
Davide, Manuela e io, riparati dietro una catasta di casse, tiravamo qualche sasso in direzione di Andrea acquattato sul tetto e da lui arrivavano regolari e monotoni tiri di bacche che facevano tintinnare le bottiglie vuote o cadevano poco più in la, attutiti dal tappeto di piumini di pioppo. Tutto,  in quel fatiscente deposito di bottiglie, faceva presagire che il mondo sarebbe finito quel pomeriggio.

Il mondo finisce oggi pomeriggio alle tre - IV

Manuela qualche minuto prima delle tre disse di volere andare a casa. Aveva un’aria preoccupata, come se stesse per mettersi a piangere. Io le dissi di restare con noi, che sarebbe stato bello vedere la fine del mondo tutti assieme. Ma non c’era verso di convincerla: lei voleva tornare a casa. Era chiaro che preferiva trascorrere quel momento con i genitori. Si alzò in piedi un istante con il broncio, forse ancora un po’ indecisa. Un tiro di Andrea la prese in piena guancia con una bacca nera che rimbalzò ai suoi piedi. Manuela la raccolse e si mise a piangere. Scappò via di corsa. Per Manuela quella bacca in pieno viso era il pretesto che le serviva per tornare a casa e forse quel tiro bene aggiustato non le aveva fatto poi così male.
Io restai al riparo delle casse con Davide che non parlava e guardava sempre più spesso il suo piccolo orologio.
Pensai ai miei. Mio padre a lavorare, mia madre in casa con mia sorella al sicuro. Mi chiesi come poteva finire il mondo: che fine avrebbero fatto quei tre grandi pioppi le cui foglie più alte tremolavano appena. Che fine avrebbe fatto quel deposito, tutte quelle inutili bottiglie, la mia casa, la mia strada, i miei amici.
Passò un auto di corsa. Ebbi l’impressione che volesse affrettarsi per arrivare prima delle tre. Passò una vecchia in bicicletta, lentamente. L’osservai aspettandomi che le arrivasse addosso una scarica di bacche, ma nessuno tirò.
Mi sporsi oltre la cortina di bottiglie, alzai lo sguardo verso il tetto del deposito. Andrea se n’era andato e solo allora mi accorsi che anche Emanuele non c’era più. Ritornai giù a terra vicino a Davide che con aria smarrita mi disse sono le tre. Guardai il mio orologio che faceva le tre e dieci, ma non dissi niente a Davide. Mi strinsi a lui fingendo di dovermi ancora riparare dai tiri di Andrea. Guardai a lungo in alto le cime dei pioppi con le foglie che ondeggiavano indolenti. Aspettai ancora un po’ poi dissi a Davide, dai, andiamo a giocare a cicca e spanna.

domenica 10 giugno 2012

da Beirut

A Sunday smile: http://youtu.be/gb2YYKYDtkA

Questa volta il ristorante

Questa volta il ristorante al confine tra Germania e Olanda è frequentato da mummie over ottanta. Il menù ha una pagina intera di piatti italiani per chi ama osare. Io mi tuffo sul tipico e stavolta dai, non mi faccio nemmeno il segno della croce.

sabato 2 giugno 2012

Domenica mattina

Esco a fare due passi sotto la pioggia. Percorro un buon tratto di marciapiedi e portici prima di incontrare qualcuno. E’ domenica mattina presto e questo tempo uggioso scoraggia la maggior parte delle persone a uscire di casa.
Trovo qualche anima viva in piazza. Un ragazzo che appoggia la macchina fotografica su una panchina di marmo per farsi una foto da solo. Non ha l’ombrello. Diluvia, ma nonostante questo si mette a lungo in posa, in piedi, a tre metri dalla macchina con il palazzo del comune e le due colonne della piazza alle spalle. Vista la distanza il palazzo e le colonne nella foto devono venire lontanissimi. Infatti non sembra convinto del risultato. Prova e riprova nuovamente.
Un gruppo di turisti bardati di impermeabili sembra indeciso su quale direzione prendere. Temporeggiano accalcati e infreddoliti sotto il portico. Un ragazzo di colore che vende ombrelli li segue interessato.
Entro in un Caffè e sono ancora sulla porta d'ingresso che la barista mi dà il buongiorno e mi chiede cosa voglio. Ci sono bar in questa città di provincia dove a volte la cortesia è tale da farmi sospettare di ritrovarmi in una scena del Truman show.
Ordino un caffè. Chiedo scusa a una signora che ho bagnato chiudendo l’ombrello, niente niente, dice lei, si figuri. Pare contenta che finalmente qualcuno le rivolga la parola.
Ci sono clienti attorno al bancone, altri seduti ai tavolini. Hanno tutti un’aria gentile, sembrano eccitati dalla pioggia, parlano a voce alta.
In fondo mi basta poco per trovare un equilibrio e dare un senso a questa mattina: bere un caffè in un bar, osservare i movimenti delle persone, sfiorare per un istante la loro vita che mi passa accanto.
Di rientro dal centro incontro un collega che mi chiede cosa faccio in giro a quest’ora con questo tempo. “Porto a spasso il cane” gli dico. “Quale cane?” dice lui, “non pensavo ne avessi uno”. “Mai avuto un cane. E tu?”. “Vado a comprare le sigarette” mi dice sorridendo. So che non fuma.