sabato 28 gennaio 2012

da Ezra Pound

La letteratura dà notizie che rimangono sempre attuali. (Ezra Pound)

da Baci rubati di Truffaut

Colazione con Sofie

Questa mattina faccio colazione con Sofie. E’ una mia collega francese, qui a Parigi come me per una fiera. La trovo sola al tavolo. La saluto, appoggio la giacca alla sedia e vado a prendere qualcosa al buffet. Quando ritorno è tutta presa a spalmare del burro su una fetta biscottata. Mi viene in mente la scena di Baci rubati in cui Antoine Doinel insegna alla ragazza come spalmare il burro su due fette biscottate sovrapposte in modo da non romperle. Sofie nonostante sia francese non usa questa tecnica e mentre preme con il coltello una fetta le si sbriciola in mano. Questo piccolo incidente sembra causarle uno scatto nervoso che le dà improvvisamente un’aria desolata. Come se le fosse caduto sul vestito un’intero calice di vino. Decido di non dirle niente della scena del film, fingo di non essermi accorto di nulla.
Le chiedo come sta. Mi dice che da un mese si è rimessa a fumare dopo tredici anni che aveva smesso. Ha ripreso a fumare perché non fa più sport e perché i suoi genitori si stanno separando. Quando faceva sport si occupava di capoeira e fitness. Ma dice che la capoeira non le piace: “non è solo uno sport, è anche uno stile di vita nel quale in fondo non mi riconosco”.
Restiamo un istante in silenzio.
“Non ho mai assistito a un’esibizione di capoeira” le dico, “salvo un pomeriggio d’estate in spiaggia: due ragazzi a torso nudo hanno improvvisato questa danza marziale in riva al mare attirando subito un capannello di curiosi.”
Appena terminata la colazione lei prende due minuscole pastiglie con un sorso di succo di frutta. Non le chiedo a cosa servono.
Si alza per prima, deve rientrare in stanza per prepararsi e prendere il bagaglio. “Ci vediamo dopo” mi dice. Decido di restare seduto al tavolo qualche minuto in più.
Dalla sua parte sulla tovaglia restano briciole di pane, semi di girasole, un pacchetto di burro aperto e uno di marmellata. Un tovagliolo di carta stropicciato. Un coltetto e una forchetta di traverso sul piatto. Nel piatto altre briciole. Un bicchiere vuoto con del succo d’arancia sul fondo. Dalla mia parte una ciotola di yogurt e una tazza di caffè.
Mi ritrovo stupidamente a chiedermi se quello che resta della nostra colazione possa aggiungere qualcosa su di noi.

Praga

Il signore che attraversa la piazza sembra uscito di casa in pigiama. Ha un’aria emaciata, pallido in viso, un passo dinoccolato. E’ la maglia attillata con tutta una serie di disegni identici che si ripetono – sembrano casette o piccole chiese, quando mi passa vicino ho l’impressione di riconoscere in quel disegno moltiplicato una cattedrale gotica – che pare più adatta a dormire che a uscire in strada.
Tre ragazze punk – capelli biondo oro e fucsia, innumerevoli piercing, trucco nero pesante – lo notano e ridono divertite tra di loro.

mercoledì 18 gennaio 2012

Casteldimezzo seaside after a weather storm

da Bruno Martino

"Tornerà un altro inverno, cadranno mille petali di rose"  Estate di Bruno Martino eseguita da Vinicio Capossela: http://youtu.be/dLzuADHPoeg

Mi dice di adorare Paolo Conte

Solleva il bicchiere di vino dal bancone del bar, beve un sorso e mi dice di adorare Paolo Conte. Lo dice con aria trasognata e uno sguardo profondo che dura qualche secondo. Penso per un istante che la sua vita sia costellata da grandi punti fissi. Ma in breve tempo cambio idea. Ora lei guarda fuori dal locale attraverso la vetrina e sul suo volto assorto c’è un espressione smarrita. Forse lei stessa si rende conto che in realtà non c’è niente da adorare. Semplicemente ha esagerato nell’espressione.

venerdì 13 gennaio 2012

da Beirut

Postcards from Italy: http://youtu.be/X61BVv6pLtw

Il signor Slotwinski - I

Il Signor Slotwinski mi accompagna alla stazione ferroviaria di Kederzin-Kozle dopo avere trascorso assieme una lunga giornata di lavoro. Ha l’aria stanca e non riesce a nascondermi un sottile disappunto. Immagino per il fatto che nonostante il nostro incontro sia stato cordiale, ci siamo trovati in disaccordo su diversi punti.
Mi chiede se voglio acquistare un biglietto di prima o di seconda classe. Gli dico che in mancanza della terza classe va bene la seconda e gli spiego che è una frase di Albert Schweitzer. Il Signor Slotwinski mi osserva da dietro gli occhiali con un accenno di domanda nello sguardo. Forse non ha capito. Gli ripeto che la seconda classe va bene.
La stazione ferroviaria di Kederzin-Kozle esprime lo squallore in tutte le forme possibili: gli scalini di accesso mangiati dal tempo e dall’incuria, un sottopassaggio illuminato da neon che diffondono una desolante luce gialla, cartacce sul pavimento, colori grigi e freddi ovunque. Poche persone in giro, tutte avvolte negli abiti invernali, con berretti di lana calati fino agli occhi per il freddo pungente. Sembrano fagotti informi.
La signora alla cassa mi passa svogliatamente un biglietto per Cracovia. Non apre bocca. Il signor Slotwinski assiste senza imbarazzo alla scena, non prende posizione sulla scortesia della bigliettaia. Aggiungo l’atteggiamento della signora dietro al vetro alla serie dei dettagli squallidi di questa stazione di provincia e mi dico che questo forse è il più trascurabile. Prometto al signor Slotwinski che resteremo in contatto, che sarò disponibile ogni volta lui abbia bisogno, ma ci congediamo con una breve stretta di mano che mi dà la netta sensazione che non ci rivedremo più.
Cerco il binario da solo. Salgo gli scalini che portano alla piattaforma numero 2.
Intorno alla stazione è buio pesto. In lontananza si intravedono edifici poco illuminati. Non riesco a capire se si tratta di fabbriche o palazzi. Sopra il cornicione della stazione c’è un’enorme orologio e termometro digitale che segna alternativamente le 15.50 e cinque gradi sotto zero, ma sembra notte fonda. Mi stringo nel cappotto per il freddo. Cammino avanti e indietro lungo il marciapiede per scaldarmi i piedi.

Il signor Slotwinski - II

Il treno è pieno zeppo di gente. Viene da Wroclaw ed è diretto alla frontiera Ucraina. Il cartello affisso sull’esterno della carrozza vicino alla porta di accesso elenca le stazioni principali del percorso: Wroclaw - Opole - Kederzin-Kozle - Katowice - Krakow -  Tarnow - Rzeszow - Przemysl. C’è gente persino sul pianerottolo di fronte alla toilette. Ora capisco la perplessità che c’era nello sguardo del signor Slotwinski quando gli ho detto che preferivo la seconda classe. Ed anche se lui avesse letto Le memorie di Albert Schweitzer avrebbe trovato comunque fuori luogo la mia ironia di fronte a una carrozza di seconda classe del treno Wroclaw – Przemysl.
Salgo assieme a una decina di persone facendomi largo con la valigia. Sul pianerottolo c’è una ragazza sui trent’anni con un valigione immenso appoggiata alla porta scorrevole della carrozza e un ragazzo sui vent’anni che ha uno zaino e una sportina di plastica sul pavimento.
Dopo avere dato un’occhiata al corridoio del vagone, pure questo stipato di persone e di bagagli, decido di fermarmi sul pianerottolo. In fondo il mio viaggio per Cracovia durerà poco più di tre ore...
Il ragazzo mi guarda con aria incuriosita. Prima ancora che il treno riparta mi chiede come mi chiamo e da dove vengo. Glielo dico e gli chiedo altrettanto.
Si chiama Michael, è francese, sta andando da una zia a Lvov dove intende passare un paio di settimane e forse, se gli va, anche le vacanze di Natale. Vive a Grenoble in Francia, ma le sue origini sono Ucraine da parte di madre. E’ un ragazzo magro, alto un po’ più di me. Ha un’aria leggermente esaltata, non saprei se per natura, per l’entusiasmo di ritornare dai parenti o per il viaggio. E’ uno studente universitario, come lo ero io qualche anno fa e questo mi fa venire in mente i miei inter-rail in giro per l’Europa, le notti passate in treno, i viaggi fatti in piedi o seduto sullo zaino e noto subito una differenza: io da studente andavo a ovest, mentre questo ragazzo francese va a est. Questo depone a suo favore, lo trovo immediatamente simpatico. Mi dico anche una cosa però, giusto per ridimensionare la mia simpatia nei suoi confronti e per giustificare il fatto che la mia massima longitudine da studente sia stata Vienna: io non ho parenti a est.
Michael estrae una bottiglia di vodka dalla sportina di plastica. Ora capisco perché lo trovo un pelo sopra le righe.

Il signor Slotwinski - III

Il treno riparte. Fuori, pure essendo le quattro del pomeriggio, è buio pesto.
La ragazza non dice niente. Ascolta incuriosita il nostro dialogo. Non sembra avere molto da dire.
Michael mi passa la bottiglia di vodka. Me ne offre un sorso dicendo alla salute in russo. Salute, gli rispondo in russo e visto il freddo mando giù due sorsi senza tanti complimenti.
Michael ride. Apprezza il fatto che ho accettato l’invito e a sua volta tracanna un lungo sorso. Dalla sportina estrae una banana, del pane e qualche mela e mi fa capire con un gesto che è meglio mangiare qualcosa.
La ragazza senza dire nulla se ne va verso gli scompartimenti della carrozza per ritornare dopo pochi minuti.
Michael passa la bottiglia di vodka alla ragazza che si schernisce e dice no grazie in polacco. Lui insiste, ma niente da fare, lei non beve. Michael le chiede se parla francese. Lei lo guarda divertita, ma fa cenno di no con il capo e ride. Le chiedo in polacco di dov’è e lei dice di Tarnow: una città tra Cracovia e Rzseszow. Michael mi guarda sgranando gli occhi incredulo, la bottiglia di vodka in mano: mi chiede se parlo polacco. Dico sì. Lui inizia a saltare, alza in alto la bottiglia, tracanna un sorso e me la passa. Un’italiano che parla polacco, ma com’è possibile? Mi chiede. Non lo so, gli dico e bevo un altro sorso anch’io. La ragazza ride, si stringe nelle spalle. Michael, sempre più esaltato dice: un francese che va in Ucraina, una ragazza polacca e un italiano che parla polacco. E russo, dico io. Lui sgrana ancora di più gli occhi, è in visibilio, mi abbraccia e mi dice in russo caro amico mio, mio dolce amico.
La ragazza ride con una mano davanti alla bocca.
Michael inizia a parlare in russo. Snocciola due, tre, quattro espressioni russe, con una pronuncia forzata, sempre esaltato. Dev’essere l’effetto della vodka. La ragazza continua a non dire niente, ma si gode lo spettacolo e non sembra minimamente intenzionata ad abbandonare la scena.
Fuori dal finestrino del treno scorre solo il buio, con rare luci che passano lentamente in lontananza. Mi chiedo dove possiamo essere, dove sta andando questo treno e mi sorprendo a pensare che mi piacerebbe proseguire questo viaggio per una notte intera, come se non avessimo una meta. La vodka inizia a fare effetto anche su di me...
Michael mi chiede di nuovo dove ho imparato il polacco e il russo. Gli dico che non mi ricordo. Mi guarda un secondo attonito e inizia a ridere sguaiatamente. Quando si riprende, mi offre la vodka con un gesto deciso, assume per un istante un’espressione seria, tra il riconoscimento e la stima.

Il signor Slotwinski - IV

Dico a Michael che sono in Polonia per lavoro e mi fermo un paio di giorni a Cracovia. Lui studia, sta finendo l’università a Grenoble e l’estate prossima dovrebbe laurearsi in economia e commercio. E’ la prima volta che va in Ucraina. Approfitta del fatto che ha finito gli esami e prima di mettersi a preparare la tesi si concede un mese di vacanza. Chissà, mi  dice, se mi piace l’Ucraina magari non torno neanche più a casa, non mi laureo più, non mi faccio più vedere dalle mie parti. E’ ubriaco.
Sempre più esaltato inizia a cantare l’inno nazionale francese e improvvisa una marcetta restando fermo su se stesso. Mi chiede poi di cantare l’inno nazionale italiano. Accenno le prime due strofe ma poi gli chiedo di lasciare perdere. Michael quindi chiede alla ragazza polacca di cantare l’inno del suo paese, ma lei dice che non lo sa. Allora propongo di cantare assieme l’inno sovietico del quale conosco solo l’incipit e la musica e spontaneamente senza metterci d’accordo iniziamo a cantare in coro e assumiamo un atteggiamento ironicamente pomposo come se fossimo a una parata militare. In breve tempo ci mettiamo tutti a ridere e a fare un altro brindisi.
Il treno rallenta. Intravedo fuori dal finestrino le luci di una città e le scritte della stazione di Cracovia. Trovo che queste due o tre ore di viaggio siano trascorse troppo rapidamente e allo stesso tempo mi dico che se proseguissi il viaggio mi ritroverei ubriaco fradicio molto prima del confine con l’Ucraina.
Devo prepararmi a scendere. Una ressa di persone si accalca sul nostro pianerottolo. Saluto Michael con una stretta di mano. Saluto la ragazza con uno sguardo.
Quando esco dal treno mi ritrovo sulla piattaforma tra la folla senza rendermi conto di come ho fatto a scendere gli scalini della carrozza. Tra i fumi della vodka mi ricordo che non ho neanche chiesto il nome alla ragazza, non so come si chiama. La osservo, mentre lei mi guarda ancora in piedi sul pianerottolo. Ha degli occhi scuri, curiosi, ma apparentemente privi di domande. E’ bella e me ne accorgo solo adesso.

sabato 7 gennaio 2012

Jimmy

Mi manca Jimmy. Il suo modo di tirare nella sigaretta. Il suo raccontare epico, lento, inframmezzato da bicchieri di vino rosso e grappa. Il suo accento bolognese che suona come un continuo porsi delle domande. Il suo naso da pugile. La luce malinconica che si accende nei suoi occhi scuri quando passa una ragazza. La sua indolenza, l’aria pigra di chi considera da tempo immemore qualsiasi iniziativa inutile. Cultore di musica jazz, film d’autore, emancipato, disinibito. Scettico e disilluso. Per anni è stato – inspiegabilmente – con una ragazza bene che l’ha lasciato quando ha deciso che era tempo di farsi una famiglia. Jimmy.

martedì 3 gennaio 2012

Joyce dice (come vedo io alcuni maestri)

Joyce dice che bisogna scrivere tagliandosi le unghie, ovvero mantenere con la pagina scritta quella distanza, quel distacco che si ottiene con la realtà quando ci si taglia le unghie. Questo, immagino, sottintende un minimo di decenza, quindi è un’operazione da fare in solitudine, appartati, se non proprio di nascosto per evitare ogni imbarazzo.
Landolfi sostiene che non vale la pena scrivere, che è un’operazione troppo faticosa, tutta fisica, deprimente e dicendo questo verga centinaia e centinaia di pagine.
Pushkin scrive ispirato solo quando imperversa la peste e lui così è costretto a un esilio forzato che si rivela in breve tempo estremamente proficuo.
Gogol sembra scrivere solo all’estero, soprattutto a Roma. Quando torna in patria immancabilmente raccoglie i manoscritti in un mazzetto e ne fa un bel fuoco.
Edgar Lee Masters scrive mentre viaggia in carrozza tra uno spintone e l’altro, seduto su una panchina, in fila allo sportello della banca. Scrive su scontrini, su biglietti del teatro. In mancanza di carta scriverebbe sui propri abiti se solo potesse. Questo perché è uno scrittore in presa diretta e probabilmente tagliandosi le unghie seduto alla scrivania non riuscirebbe a buttare giù neanche una riga.
Svevo invece scrive in gran segreto, lascia i suoi romanzi in un cassetto per venticinque anni. Un bel giorno cercando una saponetta o una lametta da barba si ritrova tra le mani quello spesso fascicolo e pensa tra sé e sé: proviamo a pubblicarlo.
Zavattini per scrivere si guarda allo specchio pensieroso, fa delle smorfie, digrigna i denti.
Tolstoj scrive tutte le mattine con regolarità maniacale. Ispirazione o meno si butta sulle pagine e scrive fiumi di parole che prosciugano velocemente interi calamai. Scrive come se marcasse tutti i giorni il cartellino, felice al pensiero che nel pomeriggio potrà zappare, sfalciare, accudire il bestiame, aiutare un contadino a mietere.
Dostoevski scrive solo dopo lunghe passeggiate per le vie del centro, sbirciando furtivamente attraverso le tende delle finestre, le porte socchiuse, i sottoscala. E sono chilometri e chilometri di marciapiedi, strade, vicoli, che diventeranno pagine e pagine di letteratura. Dostoevski per inciso è uno dei pochi scrittori che ha la certezza di essere pubblicato prima ancora che lui abbia scritto.
T.S. Eliot dopo una giornata di lavoro si apparta in un monolocale anonimo, lontano dall’ufficio, lontano dalle crisi isteriche della moglie e finalmente scrive, immemore di sé.
Calvino prende carta e penna solo se circondato da muri di enciclopedie, manuali, libri di narrativa, letteratura di ogni genere. Fissando il dorso di tutti questi volumi che vigilano sul suo lavoro scrive.
Pessoa sembra avere scritto tutto seduto al tavolo di un bar, non è mai stato da nessuna parte, non si è mai allontanato da quel caffè di Lisbona.
Leskov per decenni si occupa di commercio, viaggia lungo il Volga, il Dnepr, il Don. Conosce marinai, mercanti, ladri, furfanti, assassini, conosce donne georgiane, cinesi, turche e mongole. A un certo punto dice basta, inizio a scrivere.
Borges, cieco, cerca con gli occhi e la pelle del viso il tepore del sole e immagina storie fantastiche senza epoca e senza latitudine. Le scrive o le fa scrivere spacciandole per vere e ancora oggi quando le leggo mi sembrano più credibili della realtà stessa.