martedì 11 giugno 2013

Questo blog finisce qui. Per il momento. (This blog stops here, for the moment)

Questo blog finisce qui. Mi prendo una vacanza. Ho in mente di aprirne un altro da un'altra parte per questioni di link e rimbalzi. Chi è interessato al nuovo blog mi può inviare una mail.

This blog stops here for the moment. I take some holidays. I'm thinking about opening a new blog, somewhere else. Anybody who is interested in getting the new blog address can send me an email.

sabato 8 giugno 2013

If we could be birds


If we could be birds you would be one of those enchanting exotic birds able to attract and retain the mate with dances and amazing movements. I’d be that kind of bird who’s singing all the time to attract you.

Se fossimo uccelli tu saresti uno di quegli uccelli affascinanti in grado di attrarre e trattenere il compagno con danze e movimenti sorprendenti. Io sarei quel genere d’uccello che canta tutto il tempo per attrarti.





sabato 1 giugno 2013

da Antonia Pozzi


Tulipani

Sei tulipani, sul tavolino dirimpetto,
Tre scuri e tre chiari,
improvvisi imbizzarrimenti di steli rari:
ciascuno un linguacciuto sboccio di violetto,
inarcato nel vuoto pesantemente,
come un’effusione di tristezza inconcludente.

Milano, 8 maggio 1929





sabato 25 maggio 2013

Bologna - Stuttgard


Sono seduto su una di quelle scomodissime sedie in metallo dell’aeroporto di Bologna. Sì e no ho una mezz’ora di attesa prima dell’imbarco. Metà la trascorrerò leggendo qualcosa e l’altra metà, se non resisto alla tortura della sedia, facendo due passi qui attorno. Magari mi concederò l’ultimo caffè degno di questo nome prima di salire a bordo.

Mentre sono preso dai fatti miei sento uno dei tanti annunci che dice: “Il signor Mariani è pregato di recarsi al gate 14 per l’imbarco del volo per Stuttgard”.

Guardo l’orologio nel dubbio che si sia fermato. No. La lancetta dei secondi gira. Ricontrollo la carta d’imbarco. L’orario va bene, non sono in ritardo.

Non mi resta che andare al gate per vedere se il tizio che cercano sono io o un omonimo. Mi avvicino e trovo le due hostess in piedi, da sole, come se avessero già imbarcato tutti.

“Mi spiace” dico “non pensavo di essere in ritardo.”

“No, stia tranquillo non è in ritardo: lei è l’unico passeggero di questo volo per cui abbiamo pensato di chiamarla prima per chiudere il gate.”

“Ho capito.”

Così mi tocca un volo presidenziale. Un aereo da un sessanta posti buoni tutto per me. Sull’autobus sono da solo. Da solo salgo la rampa delle scale, senza persone di fronte che mi bloccano e nemmeno che mi spintonano alle spalle. All’ingresso dell’aereo l’hostess di bordo può giocarsi quotidiani, riviste, salviette, prosecco, insomma tutta la cordialità di cui è capace con l’unico passeggero della giornata: me.

“Si sieda pure dove vuole” mi dice. Facile viaggiare così.

Mentre l’aereo fa le manovre per raggiungere la pista l’hostess come da protocollo è obbligata a dirmi la solita ramanzina della procedura di sicurezza. Si appoggia a un sedile della fila di fianco, davanti a me. Accavalla le gambe e mi dice come allacciare slacciare la cintura, come armeggiare con la maschera dell’ossigeno – che non ho mai visto – come mettermi il giubbotto di salvataggio in caso di ammaraggio (da Bologna a Stuttgard al massimo passiamo sul lago di Garda, nemmeno sul Bodensee, ma chi può dirlo). Come aiutare altri passeggeri a mettere la maschera una volta che l’ho indossata io... Qui le scappa da ridere e si mette una mano davanti alla bocca.

Ho il giornale spalancato, ma questa volta non posso fare a meno di dedicarle un minimo di attenzione. Mi spiega tutto questo in maniera impeccabile, anche se informale, comodamente seduta sul bracciolo di un sedile. In realtà, mentre fingo di ascoltarla e mi sento stupidamente più importante, devo fare un piccolo sforzo e controllarmi per non guardarle le gambe.

Ha finito finalmente. Partiamo.

Nessun consigliere per darmi due dritte? Nessun giornalista che venga a importunarmi? Meglio così. Leggo il mio giornale in santa pace e mi godo le Alpi fuori dal finestrino.

Ho saputo in seguito che nel giro di una settimana il Bologna-Stuttgard è stato soppresso.






sabato 18 maggio 2013

Madrid Terminal 4

Lui parte. Prende un aereo. Sono una di fronte all’altro, con una parete di vetro alta fino al soffitto che li divide. Di qua le persone che accompagnano e restano. Di là quelle che entrano per il controllo bagagli.

Madrid, Terminal 4.

Si fanno dei segni. Il vetro a pochi centimetri dalle loro bocche si appanna leggermente. Lei, che resta, lo chiama al cellulare. Lui sorride, dice due parole guardandola fissa negli occhi e mette giù. Quindi l’ultimo saluto. Se ne va.

Lei lo segue con lo sguardo, osserva attentamente senza distogliere gli occhi, non lo molla. Ha tutta l’aria di sperare che lui si volti, di chiedersi se lui si volta, di scommettere che lui si volta.

Il ragazzo si allontana di spalle trascinandosi il trolley. Scompare inghiottito dalle scale mobili. Lei si alza sulla punta dei piedi per constatare se possibile che lui all’ultimo momento si volti e la saluti. Ma non si volta.

Ora lei sembra indispettita. Se ne va con un passo deciso. Si accende una sigaretta e prende di nuovo in mano il cellulare. Forse gli scrive: perché non ti sei voltato? Sai pensavo che ti saresti voltato. Mi sono detta: se si volta lo rivedo.

Chissà, forse manda un messaggio a qualcun altro.

Evito sempre di accompagnare chi parte dentro una stazione o in aeroporto. Non mi piacciono gli addii.





sabato 11 maggio 2013

Duty free

Non mi fermo quasi mai nei duty free degli aeroporti. In genere trascorro l’attesa dell’imbarco leggendo un libro, una rivista o guardandomi attorno cercando di rilassarmi. L’unico negozio che m’interessa a volte è quello dove vendono orologi.

Oggi a Lione ce n’è uno proprio di fronte al nastro per il controllo bagagli. Mentre recupero la ventiquattrore, rimetto l’orologio al polso e la valigia a tracolla, mi dirigo verso la vetrina. Entro a dare un’occhiata.

Ultimamente l’orologio che più mi cattura è il Free lance di Raymond Weil, anche se trovo che sia fuori misura per il mio polso. L’altro orologio dei miei desideri è il Monaco di Tag-Heur. Cassa quadrata, sfondo azzurro, aria vintage e sportiva allo stesso tempo. Decisamente il più accattivante. Ma mi dico convinto che non arriverò mai a buttare 4.000 Euro per un orologio.

La commessa fino ad ora seduta dietro al banco si alza per servire una signora. E’ alta una spanna più di me. Le dico bonjour.

Mentre faccio per uscire dal negozio – dove avrò passato in tutto un paio di minuti – osservo un uomo sui sessant’anni dall’aspetto giovane, completamente calvo, con la carnagione leggermente gialla, chissà se per la stanchezza o gli stravizi di una settimana di lavoro. Fissa la vetrina dei gioielli da donna, immobile, concentrato.

D’istinto guardo anch’io per capire che cosa stia valutando: un anello, una collana o degli orecchini. Mi prende una leggera delusione quando mi accorgo che sta fissando un collier tempestato di brillanti, forse costosissimo, ma ai miei occhi inequivocabilmente pacchiano.

Mi chiedo per chi possa mai essere un regalo del genere. La moglie, la figlia, la madre, una fiamma.

Esco dal negozio sollevato al pensiero che in fondo siano ancora più le persone che gli orologi a incuriosirmi.




sabato 4 maggio 2013

da Tiziano Scarpa - La vita, non il mondo

Non ha assaggiato un sacco di cose

Ti piace la pasta coi broccoli? Va bene con le acciughe?
Chiediamo alla nostra ospite.
Penso di sì.
Pensi?
Non le ho mai mangiate.
Viene fuori che nella vita non ha assaggiato un sacco di cose: molte verdure, parecchi legumi. Non ha intolleranze alimentari, non è anoressica. Ma si porta dietro fin da bambina una diffidenza per certe forme e colori del cibo. Asparagi, piselli, carciofi, olive.
Anche le olive? Domando incredulo.
In tavola c’è una ciotola di taggiasche. La convinco a provarle. Ne assaggia con cautela una tra i denti, ha l’espressione di chi è intenta a valutare la sensazione che si sprigiona in bocca. Osserviamo quella faccia rivolta verso l’interno, quel viso introspettivo. Le prime volte sono sempre uno spettacolo.
Però mi pento di avere insistito. C’è una nobiltà affascinante nell’evitare per tutta la vita di conoscere alcune cose fondamentali. Come quelli che muoiono senza aver visto il mare. Sentirsi estranei a tutto. Attraversare questo mondo schivandolo.

(Tiziano Scarpa - La vita, non il mondo)




sabato 27 aprile 2013

Dove sono?

“Dove sono?”

A chiederlo è un ragazzo con una t-shirt nera. Ondeggia. Equilibrio precario, sguardo perplesso, aria divertita.

Di fianco a lui sul marciapiede in attesa del verde per attraversare la strada quattro ragazzi parlano e ridono tra di loro. Due coppie. Rientrano dalla serata. Non è tardi, ma oggi è un giorno feriale e domani c’è lezione.

Nessuno sembra essersi accorto di lui tranne me.

“Dove sono?” ripete con la stessa voce, lo stesso tono allegro di prima. E’ ubriaco.

“Krakow” gli risponde uno dei quattro, “Sei a Krakow, pianeta terra”.

Mentre assisto alla scena mi dico che stasera è stato un ubriaco a porre la domanda più lucida.

sabato 20 aprile 2013

da Erri de Luca - Il giorno prima della felicità

Dei venti anni in Argentina ricordava il viaggio, l’oceano.

(Erri de Luca - Il giorno prima della felicità)






sabato 13 aprile 2013

Dirk la mia penna blu e un volo d'uccelli

Dirk, il mio collega tedesco, è un inguaribile romantico. Modi gentili, sempre rasato, viso e capelli curatissimi. Ha l’aria di uno che frequenta assiduamente club e discoteche. Chissà, forse è omosessuale o forse mi sbaglio. Ma questo non ha importanza.

Oggi abbiamo lo stesso volo per Mosca. Prima di imbarcare gli do una copia della richiesta di visto da compilare in modo che all’arrivo possiamo evitare la fila ed essere tra i primi allo sportello immigrazione.

Ma quando sbarchiamo a Mosca Dirk dice di essersi dimenticato di riempire il foglio. Mi chiede una penna. A malincuore gli do la mia penna blu e dico che ci vediamo fuori, ai nastri dei bagagli o davanti ai taxi.

Un’ora più tardi quando ci incontriamo all’uscita dell’aeroporto mi aspetto che mi ridia indietro la penna. Ma non dice niente. Così penso non sia il caso di fargli notare che se l’è tenuta e decido di non chiedergliela.

Il giorno dopo siamo in fiera. Dirk dice “la tua penna, grazie” e me la porge.
Il fatto che me la restituisca quando oramai me l’ero dimenticata è una piacevole sorpresa. Ho sempre una penna nella tasca della giacca e questa qui, presa a Varsavia un paio di settimane fa, è un’ottima penna a sfera. In più è blu, un bel blu acceso.

Passiamo la giornata allo stand tra colleghi, amici e clienti. Russi, italiani, tedeschi, bielorussi e polacchi. Siamo a Mosca per cui la lingua comune per la nostra conversazione è il russo. Me la cavo abbastanza bene in russo e ogni occasione è buona per fare pratica. Abbiamo un amico di Minsk che passa tutto il tempo con noi, Aleksander o meglio Sasha. Lo chiamiamo prof. E’ il nostro professore di lingua russa, uno dei migliori: calmo, paziente, disponibile.

Dirk col suo russo macchinoso, preciso, con un palese accento tedesco, a un certo punto dice “Sasha vorremmo che tu ci portassi da qualche parte stanotte”.

Sasha come prof è in gamba, ma in fatto di locali discoteche o club non ne ha un’idea. Non gli viene in mente niente.

Così Dirk si guarda intorno e ferma delle ragazze che passano davanti allo stand. Sono tre, una di loro, quella con i capelli rossi, è spigliata, loquace.

“Buongiorno” dice Dirk, “scusa se ti disturbo, ma stanotte vorremmo uscire, ascoltare buona musica, bere qualcosa. Conosci qualche posto?”.

“Si” dice lei, “ce ne sono due o tre in centro dove potreste andare”.

Dirk si fruga in tasca e mi guarda. Mi avvicino e porgo la mia penna blu e un foglietto alla ragazza dai capelli rossi.

Mentre lei scrive la osserviamo incantati: capelli lunghi, leggermente mossi. Niente orecchini. Mani diafane, dita sottili, unghie stranamente lunghe per una ragazza che di primo acchito sembra acqua e sapone.

“Qual è il migliore secondo te?” le chiede Dirk.

 “Overtime” risponde. “Posso tenere la penna?” chiede lei a bruciapelo.

“Si” le dice Dirk, “se ci scrivi il tuo nome e il numero di cellulare”.

Koneshno” risponde lei: certamente.

“Hai sentito come ha detto koneshno?” chiedo a Dirk quando rientriamo nello stand.

“Ho sentito” annuisce lui.

“Come una pietra che cade sulla superficie di un lago” dico a Dirk.

Resta in silenzio qualche secondo e mi dice: “Koneshno. Nella mia testa c’è spazio per il volo di migliaia d’uccelli.”






sabato 6 aprile 2013

da un articolo di Franco Marcoaldi su Wieslawa Szymborska

Attimo, Due punti, Qui. Titoli sempre più brevi, sempre più semplici, sempre più icastici, legati tra loro giust’appunto dal problema del tempo; nella duplice ossessione dell’eterno ritorno e dell’intrinseca caducità di un’esperienza unica e irredimibile:

“Non c’è giorno che ritorni, non due notti uguali uguali
né due baci somiglianti
né due sguardi tali e quali."

L’uomo è un essere temporale, che legge la sua vita e quella del mondo attraverso la successione dei momenti, ma proprio perciò è impossibilitato a sprofondare nel momento, a vivere interamente ogni singolo istante, stretto com’è tra il ricordo del passato e l’attesa del futuro:

“Perché tu, malvagia ora
dai paura e incertezza?
Ci sei – perciò devi passare.
Passerai – e qui sta la bellezza.”

Ecco, credo che il grande amore di Szymborska per gli animali nascesse proprio da qui. Da un sentimento di ammirazione, anzi di invidia, verso quelle creature che non vivono, come noi, attraverso il momento, ma nel momento. E solo in quello. E perciò non conoscono ambivalenza, calcolo, trucchi, trappole. E hanno di conseguenza “la coscienza pulita”.


(Articolo su Wieslawa Szymborska di Franco Marcoaldi - Repubblica 2 febbraio 2012)




 

martedì 2 aprile 2013

Oltre a lei

Oltre a lei il vero spettacolo sono gli uomini seduti qui attorno. C’è chi fa lo sguardo truce. Chi senza accorgersene assume un’aria stordita. Chi si atteggia, consapevolmente, come se si guardasse allo specchio nella sua posa migliore. Chi senza distogliere gli occhi e battere le palpebre riesce a mantenere uno sguardo inintelleggibile.

Chi ammicca concupiscente. Chi osserva impunemente. Chi resta sbalordito, catalettico, come se avesse visto la Madonna. Chi incredulo si chiede se sta sognando ad occhi aperti. Chi sarebbe disposto a pagare, chi rinuncerebbe a tutto. Chi dimentica se stesso.

Chi perde il segno dell’interminabile romanzo che sta leggendo, che sta vivendo. Chi lascia suonare a vuoto il cellulare senza rispondere. Chi resta col cucchiaino dello yogurt a mezz’aria, con il bambino seduto nel passeggino che aspetta a bocca aperta e non ne capisce il motivo. Lo capirà tra qualche tempo.

Succede questo quando la mora tacco dodici con le gambe da cicogna si siede al gate 71 di Paris Charles de Gaulle.




sabato 23 marzo 2013

sabato 16 marzo 2013

Adesso non cerco più il bamboccio


Samantha, la mia collega e compagna d’ufficio, si è mollata col ragazzo. E’ successo anche l’anno scorso, non so se con lo stesso.  Quando si lascia col moroso perde completamente la fiducia in se stessa. Sembra smarrita. Tutte le sante mattine appena arriva in ufficio il suo primo pensiero è ascoltare l’oroscopo su internet: per un minuto buono mi fa sentire la voce di questo debosciato che snocciola a caso fregnacce sulla vita, l’amore e le stelle. Non ancora sazia mi chiede – ogni giorno – di che segno sono e fa partire il mio, di oroscopo.

Dall’estate scorsa questo premio nobel parlando a vanvera del Leone ripete che devo mettere ordine nelle mie finanze, darmi una calmata con le spese. Sempre uguale. Oramai mi ha sfracellato l’anima con sta menata.


Ascoltato l’oroscopo Samantha si trucca scrutandosi in uno specchietto tascabile. Sopracciglia, ciglia, fard, cipria, rossetto. Chatta una buona mezz’ora su skipe. Fa un paio di telefonate. Va in bagno con una collega. Beve un caffè con un’altra. Riceve cinque minuti la sua amica dell’Amministrazione. Solo sulle undici realizza di essere in ufficio e finalmente si mette a fare qualcosa, così, per ammazzare il tempo.

Biascica chewing gum ininterrottamente e tracanna litri d’acqua. A metà mattina o a metà pomeriggio si concede uno spuntino previsto dalla dieta che gli ha consigliato un tizio in palestra: prosciutto crudo e yogurt.

Presa da questa burrasca sentimentale è come una mina vagante. Offerte sconclusionate, lettere d’invito inevase, pratiche che scompaiono nel nulla, cose da ripetere tre volte.

Ci sono giorni in cui ha gli ormoni a mille: vestita abitualmente da pin up cammina sculettando davanti alla mia scrivania, si appoggia al tavolo col busto a novanta gradi, lancia occhiatacce da gazzella del Serengheti. Uno di questi giorni penso di prendere su e sbattere la testa contro il muro.

Oggi di punto in bianco nel silenzio dell’ufficio mentre armeggiava con specchietto e eyeliner se n’è uscita con una frase lapidaria: “Adesso non cerco più il bamboccio bello. Voglio solo un uomo che mi fa stare bene.”

Desiderio plausibile.

Mi guarda.

La guardo.

Provo a immaginare l’uomo che la farà stare bene e mi chiedo – per un momento complice - di che segno potrà mai essere.



 

domenica 10 marzo 2013

da Dente - Vieni a vivere

Paolo deve essersi innamorato

Paolo deve essersi innamorato di Agata perché lei assomiglia a un uccello.

Compagno di squadra nelle partite di calcio giocate nel campetto del quartiere, figlio della mia prof di Educazione Tecnica alle medie. Giocava sempre in porta. Una porta fatta di tre travi di legno grezzo inchiodate malamente appoggiata alla siepe di cipressi che delimitava il campo. Un pomeriggio mentre lui era pronto a parare un rigore una folata di vento ha scosso la siepe e la porta gli è piombata addosso colpendolo alla testa. 
Paolo era talmente concentrato che non si è accorto di noi che gli stavamo gridando di spostarsi. Fortunatamente non si è fatto niente.

Ci siamo persi di vista. Ma una sera me lo ritrovo in una birreria del centro.

Mi dice che da anni va regolarmente in Polonia, frequenta le riserve naturali dei Mazuri: una regione di colline, foreste, paesaggi verdi tutto l’anno e una miriade di laghi. Passa lunghi mesi appostato con binocolo e macchina fotografica per documentare l’aquila pescatrice. È l’uccello simbolo della Polonia, raffigurato negli stemmi e nelle bandiere del paese. Trascorre giornate intere acquattato per terra in attesa di scovare il rapace. Notti all’addiaccio, albe interminabili, sotto il sole cocente o tartassato da vento e acquazzoni.

Mentre l'ascolto noto il suo viso bruciato, la pelle rossa, il naso come quello delle persone che bevono. Ma non lo trovo invecchiato.

E mi dice di Agata. Una ragazza polacca conosciuta per caso in un villaggio, che ha sposato subito.

Qualche giorno dopo lo incontro nuovamente ma questa volta con Agata. E' magra, ha il collo lungo, il naso che ricorda il becco di un’Avocetta. Gambe esili, pelle chiara, capelli castani, occhi azzurri. Una voce sottile, squillante. È dolce, ingenua, spontanea. Sembra un airone, uno di quegli uccelli dalle zampe lunghe e dal portamento aggraziato e mi ritrovo a pensare che forse Paolo si è innamorato di lei proprio per questo.

Ora Agata vive in Italia, ha un figlio di cinque anni. Paolo la maggior parte del tempo continua a passarlo nelle zone selvagge a caccia di uccelli da fotografare. Sa che a casa lo aspetta una cicogna migrata a sud.



sabato 2 marzo 2013

Sono in bici

Sono in bici. Mi dirigo in fretta verso l'ufficio di collocamento. Davanti alla Rocca Brancaleone un ragazzo mi fa cenno di fermarmi. È sulla trentina, forse trentacinque anni. Indossa uno strano cappello di cuoio dalla forma cinese, a cono largo rovesciato. In mano ha una macchina fotografica da poco, di quelle che sembrano un giocattolo. Ha un aspetto trasandato, la barba incolta, un paio di occhiali dalle lenti spesse. È senz'altro un turi­sta, forse un turista straniero.

Attraverso la strada e mi avvicino a lui intuendo la sua in­tenzione. Vuole che lo fotografi con la Rocca sullo sfondo.

Ha un accento meridionale, ma dalle poche parole che ci scambiamo non riesco a capire se è pugliese o napoletano. Mi chiede di fotografarlo anche a mezzo busto, non importa se nell'inquadratura non ci sta tutto, l'importante è che nella foto appaia la Rocca sullo sfondo.

Prendo in mano la macchina fotografica. È leggera, nera, col pulsante per lo scatto cromato leggermente in rilievo. Lui è pronto, in piedi, quasi appoggiato ad un'auto parcheggiata sul lato della strada. Nell'inquadratura c'è lui dalla vita in su sulla sinistra. Dietro, i fili della luce, qual­che auto parcheggiata e la lunga parete della Rocca che occupa tutto lo sfondo. Sulla parete del bastione d'ingres­so spicca il manifesto bianco in cui è scritto a caratteri cubitali Rocca Cinema.

Non sorride.

Attende lo scatto strizzando gli occhi per l’intensa luce.

Scatto.



sabato 23 febbraio 2013

Youth

Youth era una parola che non riuscivo a pronunciare: iouz, iuz, iouhz. La sentii ripetere più volte durante il mio primo inter-rail in Inghilterra. Dormivo in ostelli della gioventù, youth hostels. Pronunciare le due parole assieme era ancora più difficile e anche se erano stampate a caratteri cubitali sulla copertina della guida, solo dopo alcuni giorni riuscii ad associare la pronuncia di quelle due parole alle due parole scritte.

Gioventù, giovinezza.

L’italiano, forse poetico o ingannevole, non trasmette lo stesso suono dell’inglese. Youth è una sillaba misteriosa, è come un taglio, un colpo di vento, dura un istante.

sabato 16 febbraio 2013

A che punto sono della mia vita

La bottiglia di vino rosso è finita. Il primo che avvista il cameriere ordina la seconda.

Sono a cena con Alessandro in una bettola del centro.

Mi guarda da un paio di minuti fisso fisso senza dire niente. Mica che sia a corto di argomenti. Quando fa così è probabile che abbia una domanda in canna, lo conosco.

“Da quanto tempo non vai in giro?” mi chiede.
“Sono rientrato ieri da Algeri”.
Potrei avergli detto Londra, Mosca o Beirut, non avrebbe fatto alcuna differenza. Ha un lavoro simile al mio, pure lui è spesso all’estero.
“Tu?” gli chiedo.
“Non vado più da nessuna parte. Il titolare latita, non si fa vedere, devo stare in ufficio”, dice lui, “e questo dimostra che girare o non girare le cose non cambiano.”
“Dici per il risultato o perché in viaggio o in ufficio fa lo stesso?”
“Per me è lo stesso. Non cambia il risultato e non mi cambia la vita, mi abituo in un attimo a entrambe le cose…”.
“Ho capito” gli rispondo.

Il cameriere con un'occhiata ci fa intendere se vogliamo qualcosa. Alessandro alza a mezz’aria la bottiglia di vino vuota.

“A che punto sei della tua vita?” mi chiede a bruciapelo.

Ha l’aria di una domanda solenne, ma non riesco a dare peso alle sue parole. Perché Alessandro è così: di punto in bianco, quando meno te lo aspetti, ti incalza con questioni sui massimi sistemi.

“Sono a questo punto, il punto presente” gli rispondo.
E vista l’insoddisfazione nel suo sguardo per la mia risposta aggiungo: “Come te aspetto che il cameriere porti un’altra bottiglia di vino”.

Il cameriere arriva con la seconda bottiglia, stappa e senza convenevoli riempie i calici fino a tre quarti.

“Hai mai letto Marco Aurelio?” Gli chiedo.
Alessandro accenna un no con la testa.
“Stasera quando rientro a casa ti mando qualcosa per email.”

La sera torno a casa, cerco tra i libri A se stesso. Mi sdraio sul divano e scorro le pagine dove ho segnato a matita alcuni passaggi. Ecco la frase. Cellulare in mano gliela trascrivo paro paro:

“Nessuno perde altra vita se non questa che sta vivendo, né vive altra vita se non questa che va perdendo.”

sabato 9 febbraio 2013

Oggi pranzo con Irene

Oggi pranzo con Irene. E’ qui a Ravenna perché stamattina ha fatto degli esami in ospedale. Qualche mese fa le hanno scoperto uno scompenso nei globuli bianchi, una degenerazione inspiegabile. Forse un tumore.

La cosa mi sembra seria, ma Irene mentre me ne parla ride. E allora mi viene in mente che lei è così: parte sempre dal peggio, tira al melodrammatico, poi si riprende, sdrammatizza.

Dice che è una forma ereditaria e in effetti qualche suo parente ha avuto una cosa simile, tipo sua nonna.

“Se n’è andata per questo?” le chiedo serioso.
“Ma va!” fa lei, “è ancora al mondo. Quest’estate compie novantadue anni…”.

Tutto sommato non mi sembra preoccupata. Sono felice di vederla e glielo dico in continuazione. Irene resta la mia ex collega preferita. Una donna tutta d’un pezzo, schietta, spontanea, a volte fintamente ingenua. Con lei mi viene naturale infilarmi in lunghe chiacchierate. Quando eravamo compagni d’ufficio praticavamo il pettegolezzo sfrenato e adesso che non lavoriamo più assieme ogni tanto ci dobbiamo incontrare per metterci in pari.

“Sai che sopra ci sono delle camere?” le dico.
“Quindi?”
“Niente. Volevo dirti che ne ho prenotata una per noi due.”
(Sguardo interrogativo di lei)
“Andiamo, su...”
“Ma sei fuori? Smettila dai.”
“Guarda, ti resta così poco da vivere… Io ci farei un pensiero…”

sabato 2 febbraio 2013

Una notte a Istanbul

Una notte a Istanbul nel quartiere di Galata mi sono fermato a guardare dei bambini che giocavano a calcio schiamazzando in un campetto di terra battuta. Visto lo spazio ristretto c’era solamente una metà campo: due squadre indistinte con una sola porta e un portiere. Proprio come giocavamo noi nello spiazzo di via Lametta.

Dietro la porta alle spalle del portiere l’arco illuminato della costa europea, brulicante di luci a perdita d’occhio.

Quei bambini sembravano prendere a calci l’Europa. Ogni tiro che finiva alto sopra la porta era come una pallonata irriverente a una capitale, a un angolo sperduto del vecchio continente.

sabato 26 gennaio 2013

Due passi in spiaggia a fine inverno

Parcheggio l’auto sul lungomare. Ho un paio d’ore da ammazzare in questo pomeriggio di fine inverno.

Attraverso a piedi uno stabilimento balneare chiuso e decido di proseguire lungo la battigia fino alla foce.

Un uomo in acqua setaccia il fondale con un rastrello: deve pescare vongole o telline. E’ intabarrato per il vento pungente nonostante la giornata di sole. Indossa stivali di gomma alti fino alle coscie.

In lontananza mi viene incontro lentamente una coppia di anziani con un cane. Paiono stanchi tutti e tre, cane compreso, come se rientrassero da una lunga camminata. Non si dicono niente, non parlano. Ci incrociamo senza il cenno di un saluto, come se fossimo qui furtivamente: a pescare di frodo, a rubare un po’ di sole, a fare due passi senza che nessuno ci veda.

Sulla spiaggia ci sono i resti delle mareggiate invernali: rami, tronchi, contenitori di plastica, grovigli di corde malandate. Reti da pesca strappate, una boa rossa, conchiglie ovunque.

Le palazzine nei dintorni hanno le tapparelle abbassate e le persiane chiuse. Gli appartamenti disabitati per tutto l’inverno devono essere gelidi e sapere di muffa.

Una barca a vela naviga a motore verso sud, l’albero nudo senza randa, nessuno in vista a bordo. Sulla linea dell’orizzonte spiccano le piattaforme per l’estrazione del gas. Da quella più vicina alla costa arriva regolare il segnale di tre toni brevi e uno lungo per la nebbia.

Alla foce su entrambe le sponde del fiume le massicciate proteggono l’estuario dalle fiumane e dalle onde. Capanni da pesca chiusi. Due persone si riparano dal vento sul retro di un capanno. Sembrano barboni. Fumano stringendosi nelle spalle. Hanno un cane che mi fissa immobile, non mi toglie gli occhi di dosso.

Penso che il mare non ami niente di superfluo e che un luogo come questo non abbia bisogno di parole pronunciate. Qui ogni persona, ogni cosa appare essenziale nella sua futile presenza.

E’ un pensiero come un altro che non posso rivelare a nessuno. Lo tengo per me. Fino ad ora.

sabato 19 gennaio 2013

Firenze during holidays

Dariusz

Il nonno di Dariusz - quando Dariusz era ancora un bambino - gli da due monete identiche, ciascuna da uno Zloty e gli dice: con questa compri il latte e con questa due panini.

E’ un bambino di sei anni, biondo, occhi azzurri, contento di avere un compito da assolvere per suo nonno. Abita nella periferia di Varsavia: case di legno, boschi di betulle, binari assediati dall’erba, una strada provinciale lungo l’argine della Vistola e una pianura che si perde a vista d’occhio. Non lo sa, ma è un paesaggio che si ripete uguale dalle porte di Vienna fino a Vladivostok.

Quando Dariusz arriva al negozio estrae dalla tasca le due monete. Resta immobile, dubbioso, davanti alla commessa che lo guarda con un’espressione neutra.

Il bambino torna indietro, attraversa di corsa campi, radure, vicoli alberati. Non si accorge del vento che fa tremare le betulle, non saluta gli amici che incontra, perché il suo unico pensiero è rientrare a casa.

Entra, trova il nonno seduto vicino alla finestra e gli chiede: “quale moneta è per il pane e quale per il latte?”

venerdì 11 gennaio 2013

Il tè

Il tè con Alessandro lo bevo alla russa. Non in una tazza di ceramica, ma in un bicchiere di vetro.

In più lui ha questo vezzo di chiedermi due bicchieri. Glielo verso. Lo addolcisce con mezzo cucchiaino di zucchero. Mescola senza tintinnare sul vetro e prende a rovesciarlo da un bicchiere all’altro.

Invece di attendere qualche minuto, come faccio io, lui lo versa ripetutamente e in questo modo il tè da rovente diventa bevibile.

Resto a guardare in silenzio il suo rituale e penso.

Penso al tè denso di miele e foglie di menta bevuto ad Algeri. Ai bicchierini dalla forma sensuale nei quali servono il tè a Istambul. Al vetro sottilissimo che scotta le dita dei bicchieri con cui mi offrono il tè i clienti in Polonia. E il soggiorno di casa mia diventa la sala di un bar di Meknes, la tenda mongola fatta di un unico ambiente dove sorseggiamo il tè seduti su grandi tappeti, lasciando trascorrere a piccoli sorsi il tempo che rallenta, si ferma e prende un sapore asiatico.