domenica 23 dicembre 2012

Il Signor Tibor Fried

Il signor Tibor Fried mi faceva foto sbiadite che mi consegnava felice il giorno seguente. Per lui era naturale immortalare qualsiasi persona conoscesse e fargli dono della foto, come a suggellare una relazione duratura.

Il risultato era un mix dovuto alla sua mano un po’ tremante, alla pellicola vecchia di decenni e agli acidi per lo sviluppo troppo diluiti o scaduti da chissà quando. Così, anche se fresca di un giorno, la foto aveva i colori di una stampa dimenticata al sole per un’estate intera.
Quella che conservo mi ritrae immobile vicino a una roulotte da campeggio che il nostro agente ungherese usava in fiera. Con vestiti invernali dove si intuisce a malapena il blu della giacca e meno il colore dei pantaloni. La mia faccia senza lineamenti, l’espressione indecifrabile, la luce soffusa nonostante fosse pieno giorno.

Tutto questo rende ancora più improbabile che possa essere io la persona ad essere fotografata, che abbia conosciuto il signor Fried e sia stato in primavera a Budapest alla fiera campionaria.

sabato 15 dicembre 2012

Approaching Copenhagen

Giudico un libro dal finale




“Giudico un libro dal finale, dalla conclusione” dice lei.

C'è una coppia seduta al tavolo di fianco a me in un ristorante semivuoto. In tutto ci sono due tavoli occupati, il loro e il mio. Sono solo. Arriva qualche rumore sordo dalla cucina. Nessuna musica di sottofondo a drammatizzare o alleggerire la scena. Fortunatamente non c’è nemmeno nessun televisore acceso a blaterare fatti di cronaca o partite di calcio già giocate.

Devono avere litigato. Lei ha un’aria tesa, gli occhi vicini alle lacrime. Lui, quasi di spalle rispetto a me, da quel poco che riesco a vedere e a capire mi sembra impassibile.

“A me non piacciono i libri che finiscono con una conclusione” dice lui.

Silenzio.

"L’unica conclusione che conosco è la morte", prosegue lui dopo una pausa che mi è sembrata infinita,  "per questo preferisco le storie a finale aperto, che restano in sospeso. Non credo nemmeno nel lieto fine che vedi in molti film: il lieto fine è comunque qualcosa di provvisorio, di temporaneo”.


D’istinto vorrei consolare lei. Ma non posso che dare ragione a lui. Potessi intervenire direi provocatorio che tutti i film mielosi o le commedie sentimentali finiscono proprio nel momento in cui i due si ritrovano, si mettono assieme, si sposano: chiudono lì, non ti fanno vedere il seguito. “E vissero felici e contenti” è sempre una chiusura fittizia, momentanea, illusoria. Parliamoci chiaro: non c’è niente che finisce, niente che si conclude. Quando si arriva a un apice di felicità il film termina sbrigativo e mettono i titoli di coda.

Li guardo e mi chiedo a che punto sono della loro storia, del loro film. E così, senza farmi altre domande entro in scena: mi alzo dal tavolo, mi avvicino a loro e dico: “Chiedo scusa, non mi piace cenare da solo, posso sedermi qui con voi?”.

sabato 1 dicembre 2012

da Erri De Luca, I pesci non chiudono gli occhi

La stanza tra le barche fu schiarita dalla luna salita sulla prua di fronte. Ci staccammo, le labbra intorpidite. La via verso le case fu alla cieca, perdendola affiancati. A un bivio ci separammo, sciogliendoci le mani senza necessità di altro saluto. Eva e lo sposo suo, usciti dal giardino, avevano già avuto tutto il bene del mondo. La vita aggiunta dopo, lontano da quel posto, è stata una divagazione.

(Erri De Luca, I pesci non chiudono gli occhi)

sabato 24 novembre 2012

Alessio

Incontro Alessio in centro dopo qualche settimana che non lo vedevo. Non so perché ma inizia subito a parlare, come se riprendesse un discorso appena interrotto, dicendomi che ha smesso di consigliare libri, canzoni, album musicali, ristoranti, luoghi da vedere, bar dove andare a bere. Ha smesso di postare foto su internet, di inviare citazioni per email, di fare notare uno scorcio, una prospettiva, un paesaggio. Se qualcosa colpisce la sua attenzione se lo tiene per sè.

Mentre mi parla penso che lui in effetti è stato per anni il mio pusher musicale. Devo ammettere che grazie a lui ho ascoltato gruppi e autori ai quali non sarei mai arrivato da solo.

“Mica che io sia diventato apatico o indifferente” dice, “anzi: durante la giornata inciampo sempre in un dettaglio che mi colpisce. Lo sai che sto sempre con gli occhi aperti. Ho preso piuttosto l’abitudine di avere un dialogo con me stesso: se c'è qualcosa che mi sorprende, me ne chiedo il motivo. Per me è diventato un esercizio: a volte prevede delle soluzioni banali e altre invece non riesco a venirne a capo, non riesco a raccapezzarmi delle ragioni per cui questo o quel particolare mi abbia colpito. Può essere il gesto con cui una donna si sistema i capelli. Un albero, una nuvola, un giornale per terra, una bicicletta chiusa a un palo. Una frase colta al volo. Un suono. Può essere il movimento incongruo fatto da una persona mentre passeggia sovrappensiero. La battuta di uno sconosciuto.”

“Va bene,” gli rispondo approfittando di una pausa imprevista. “Lo so che si cambia, è inevitabile. Ma lascia che te lo dica: si cambia pure restando incorreggibilmente uguali a sé stessi. E tu, caro Alessio, resti un grande attaccapezze.”

sabato 17 novembre 2012

A casa di Laila

Siamo a casa di Laila, alcuni di noi seduti attorno all’enorme tavolo in marmo della veranda altri a zonzo. Sul tavolo ci sono due vassoi di pasticcini che ha portato Grazia e la crostata appena sfornata dalla padrona di casa.

Mi siedo su una panca in posizione centrale, spalle alla vetrata che dà sul laboratorio di falegnameria. Nessuna possibilità di muovermi. Per il momento non m’interessa fare il giro della casa, vedere il giardino, l’orto, il retro, la micia che ha partorito di recente una nidiata di gattini. M’ingozzo di dolci, pasticcini e crostata, uno dietro l’altro senza contarli, compulsivo.

Alcuni amici sono fuori in cortile a giocare con il cane che va e viene da una piccola porta girevole aperta sulla parete di legno della veranda. Altri guardano estasiati la gatta con i suoi micini di appena una settimana. Allatta i cuccioli distesa su un cuscino dentro a uno scatolone di legno.

“Volete un gattino?” chiede Laila entusiasta rivolgendosi a me.
“No grazie” le rispondo, “sono sazio, ho già mangiato abbastanza”.

sabato 10 novembre 2012

Il ciglio

Fu un errore conoscersi, un errore che tento di ripetere
perchè solo il farnetico è certezza.

(Eugenio Montale, Pasqua senza week-end)



Sono seduti al tavolino del bar di fianco a me. Non ho niente da leggere, ho bevuto il mio caffè, non posso fare altro che guardarmi attorno e ascoltare.

“Posso fare una cosa?” chiede lei.
“Cosa?” risponde lui.
“E’ più forte di me” dice lei, “quando vedo un ciglio devo fare il gioco del desiderio”.
“Va bene” dice lui.

Avranno vent’anni. Direi che stanno assieme, ma chi può stabilirlo con certezza.
Lei delicatamente, con un movimento lento, prende il ciglio sul viso di lui con la punta del pollice e del medio a pinza. Non ha le unghie lunghe, ma riesce ad afferrare il ciglio al primo colpo. Lo deposita sul polpastrello dell’indice della mano destra. Lui mette il polpastrello del suo dito indice sopra quello di lei. Le due dita si comprimono una contro l’altra. Il ciglio resta schiacciato tra i due polpastrelli. Il mondo si ferma.

“Desiderio” dice lei guardandolo negli occhi.
Tre, forse quattro secondi di silenzio e lui dice “Fatto. Desiderio espresso”.

Distaccano le dita e il ciglio resta appiccicato al polpastrello di lui.
Lei ci rimane male, ha un aria delusa: “Mai una volta che resti attaccato alle mie dita” dice.

Lui sorride, sembra non dare peso alla cosa.

“Qual è il tuo desiderio?” chiede lui.
“Non si può dire” dice lei. “E il tuo?”
“Il mio desiderio” dice lui “è che si esaudisca il tuo”.

Lei spalanca gli occhi, sorride.

“Solo” dice lei “è che adesso avendolo rivelato mi sa che non si avvera nemmeno il tuo…”

sabato 3 novembre 2012

Janusz ha trascorso l'infanzia a Radosc

''Gli anni prima della scuola sono passati in un lampo,
proprio come quegli alberi davanti alla luna.''

(John Kennedy Toole, La bibbia al neon)


Janusz ha trascorso l’infanzia a Radosc. Dice che spesso sogna di passare in treno lentamente per la stazione di Radosc senza fermarsi.
Radosc in polacco significa gioia, felicità.

sabato 27 ottobre 2012

Coda di cavallo


“Mi vedo da un po’ con una tipa mora, capelli lunghi ricci, alta uno e ottanta, quasi più alta di me” dice Alessandro. Stiamo parlando del più e del meno davanti a un caffè e al suo pacchetto di sigarette. Lo lascio dire, m’interessa.

“Occhi scuri” continua, “piercing sul naso, piercing all’ombelico, piercing sulle sopracciglia e mi ha promesso che si fa il piercing anche lì”. Sgrano gli occhi. “Tutta tatuata. Fai conto, qualcosa come sei o sette tatuaggi. Uno di questi giorni li conto e ti dico quanti sono...”

Non dico niente, ma con gli occhi gli faccio capire di proseguire: voglio vedere dove vuole arrivare perché le sue storie tirano sempre all’apologo, al finale col succo.

“Allora un giorno” prosegue Alessandro “mi ritrovo a parlare con mia moglie e le dico che se devo confessarle un debole, se c’è qualcosa che mi fa uscire pazzo in una donna sono i capelli lisci, tirati indietro, con la coda di cavallo. Meglio se bionda.”
“Come la madonna, dice mia moglie ironica. Non so bene cosa intenda, ma probabilmente ha ragione lei: mi piace la donna classica, dall’aria bene. Mi fa impazzire se vestita da tennista o in divisa da golf. Mia moglie dice che sono proprio un classicone tradizionalista...
“Ma mi ci vedi a me, dico io a mia moglie, con una morettona tatuata tutta piena di piercing?”.

Sorrido. Scuoto la testa e dico a Alessandro col tono del prete che si arrende di fronte al peccatore incorreggibile: “fottutissimo verme”.

sabato 20 ottobre 2012

Ho fatto un casino (Una scena del film, non il finale)



“Ecco il tuo morso oscuro di tarantola: son pronto.”
(Eugenio Montale, Il ritorno)




“Ho fatto un casino.”
Dice questo piangendo. I suoi occhi azzurro mare adesso paiono liquidi, prendono profondità. Le lacrime cadono sul dorso della mano, sul vestito, come se piovesse.

Fuori piove.

Sembra un film. Come nei film tutte le volte che c’è un momento drammatico piove. Dev’essere un espediente cinematografico per dare maggiore intensità alla scena e renderla inequivocabilmente reale. Mi scopro a pensare che nelle sue lacrime ci sia un po’ di fiction, ma cerco di allontanare questo pensiero: non voglio sovvertire regole del cinema comunemente accettate, tanto meno credere che lei stia recitando o che la pioggia fuori sia un artificio.

Ha il viso bagnato. Il rimmel sulle ciglia si scioglie cerchiandole gli occhi di nero. Dice che ha fatto un casino, ma non dice altro.

Preparo due tazze di tè e gliene metto una di fronte sul tavolo. “Attenta che scotta” le dico. Ma non lo tocca, lo lascia raffreddare. E’ come se non avesse sentito la mia voce.

Dice che erano diventati come fratelli lei e suo marito. Lei sempre presa dal lavoro, dalle sue traferte all’estero. Lui che doveva ancora dare alcuni esami all’università. In pratica non si vedevano mai.

Posso solo fare supposizioni. Forse lei ha avuto una storia. Forse è arrivata al punto da non provare più niente nei suoi confronti. Magari con lui ci stava bene. A pensare il peggio ci si prende. Per cui quello che si insinua nella mia mente è che lei sia stata con un altro e lui se ne sia accorto. O che lei abbia fatto in modo che lui se ne accorgesse.
 
Penso a quanto possa essere doloroso separarsi per due persone che non si vedono mai.

“All’inizio passavamo assieme tutti i fine settimana” dice riprendendosi. “Dormivamo in un appartamento in affitto. Un monolocale soppalcato con una terrazza che dava sul campanile di una chiesa. Le campane suonavano dalle sette di mattina alle dieci di sera.”
Sorride.
“Non c’era bisogno di mettere la sveglia per alzarsi. Un incubo. Ogni ora un tocco forte e la campana piccola per i quarti d’ora. Quando suonava la campana delle sette mi svegliavo di soprassalto. Sette tocchi uno dietro l’altro. Non sono mai riuscita ad abituarmi.”

Improvvisamente diventa loquace. Smette di piangere.

“Qualche domenica andavamo in giro a piedi per il centro a cercare case in vendita. Ne abbiamo trovata una che ci piaceva, l’abbiamo fermata pagando una caparra.”

Beve un sorso di tè. Si soffia il naso con un fazzoletto tutto stropicciato.

“Mi ha fatto arrivare una lettera ingiuntiva da un avvocato. Non vuole darmi un soldo.”

Mi chiedo se farei lo stesso nei panni di lui. Qualcuno mi ha già detto che alla fine di una storia tutto si riduce a una questione economica.

“Cosa devo fare? Dimmi cosa devo fare”.
Si asciuga le lacrime col palmo delle mani.
C’è qualcosa che non mi dice e non me la sento di chiederglielo. In fondo non so niente di lui e poco più di niente di lei. Non mi va di impicciarmi della sua vita.

“Che casino” dice lei, “che casino che ho fatto”.

Ora le lacrime cadono sul piano del tavolo, sul legno liscio, senza nessuna possibilità di evaporare. Restiamo un momento senza parlare. Sono questi momenti di silenzio quelli che preferisco. Mi viene in mente una canzone di Paolo Conte, il titolo dev’essere Un vecchio errore: “Niente di niente… spiegalo alla gente, cosa vuol dire, cosa vuol dire amare l’amore, senza mai fare neanche un errore.”

La guardo negli occhi e cerco di capire che cos’è che non mi vuole dire. Bevo il tè e mi chiedo se mi metterei con una come lei. Non servono altre parole. Fossi il regista di questo film proseguirei con la pioggia fuori e chiuderei con la canzone di Paolo Conte senza aggiungere altro. Sarebbe solo una scena del film, non il finale.

sabato 13 ottobre 2012

Algeri

Il vento scuote appena gli eucalipti di Algeri. Ha lo stesso tepore di quello che nel tardo pomeriggio soffiava in spiaggia a Guardalavaca. Anche qui ha il sapore dolce del mare.
La musica di liuto che esce falsata dagli altoparlanti della fiera accompagna passanti distratti carichi di sporte di carta. Arrivano a tratti le voci e le grida dei ragazzi sulla ruota panoramica in fondo al viale. Tra le chiome degli alberi appaiono solo i sedili più alti,  dondolano lungamente ogni volta che la ruota si ferma.
Un cane invisibile abbaia.
Tra poco la voce del muezzin da altoparlanti più lontani irromperà in questa scena per la preghiera del pomeriggio.

sabato 6 ottobre 2012

Monica


Your love is my poison
(Scritto in nero su una t-shirt bianca)


“E’ stato un capello a fregarmi, un lungo capello nero. Mia moglie è bionda”.

Mentre parla mi viene in mente una storia che mi ha raccontato il mio capo anni fa. Sua moglie aveva scoperto un capello impigliato a un maglione mentre gli disfaceva la valigia. Ora non ricordo di che colore fosse questo capello, ma sicuramente di un colore diverso da quello dei capelli di lei. E quella volta, ricordo bene, non mi aveva colpito il fatto che il mio capo fosse stato colto in flagrante da sua moglie, quanto il fatto che non si facesse e disfacesse la valigia da solo.

“Mia moglie è bionda” prosegue il mio collega “riccia e trova questo capello lungo liscio nero. Me lo presenta davanti agli occhi come un coltello e mi chiede a bruciapelo questo di chi è? Io non ho mai avuto un’amante” dice il mio collega, “mai avuto una storia, ma all’improvviso con mia moglie davanti che brandisce minacciosa questo capello scopro di essere arrivato a un capolinea, la misura è colma, non ne posso più, ne ho le palle piene di noi due. Allora dico "Monica". M’invento un nome, pronuncio il primo che mi viene in mente. Non dico altro. Mia moglie con quel nome sembra avere capito tutto. E’ quello che voleva sentirsi dire visto che le cose tra noi non andavano.”

“Ma allora quel capello di chi era?” gli chiedo incredulo.
“Ecchennesò” risponde lui.
“E adesso?” insisto io.
“Adesso mia moglie è convinta che io abbia un’amante o che l’abbia avuta. Magari si sente più in diritto di farsene uno pure lei.”
“E non siete più tornati sull’argomento?” chiedo, perché a me ancora qualcosa sfugge.
“No, mai più detto niente”.

Mi si deve leggere in faccia la perplessità più assoluta. Non so se fidarmi di lui, ma voglio credergli.

“Scommetto che mia moglie si vede con uno pelato che non lascia capelli in giro” dice e non riesco a capire se il suo tono sia indifferente o irrimediabilmente affranto.

“Ora cosa fai?” gli chiedo.
Mi guarda senza vedermi, distratto per qualche secondo da un altro pensiero e mi dice:
“Cerco questa Monica con i capelli lunghi lisci e neri”.

sabato 29 settembre 2012

Nel telegiornale delle 13.00

Nel telegiornale delle 13.00 tra le notizie lampo ce n'è una che riguarda la diminuzione delle risorse idriche nel mondo. In Africa, dice la voce fuori campo, l'acqua in breve tempo è destinata a ridursi di un quarto di quello che sono le disponibilità attuali. Sullo schermo, a suffragare queste parole poco rassicuranti dette con impeccabile professionalità, compaiono immagini della savana e donne che si aggirano tra capanne di paglia con un cesto o un'anfora sulla testa.

Mentre fuori piove penso all’Africa di cui la prima cosa che ricordo è la sua immagine sull'atlante geografico. Provo a riflettere sul caldo polveroso di un luogo arido e penso a questo: cosa può significare l'assenza della pioggia in un paese dove non piove mai.

Mi chiedo se questi messaggi dal sapore apocalittico nascono dall'esigenza di informare su aspetti preoccupanti o se nella loro brevità nascondono la sola intenzione di abituarci in dosi omeopatiche a cataclismi e sconvolgimenti ben più gravi e irrimediabili. Ma il tempo per farsi delle domande è poco perché la giornalista, con la stessa padronanza, la stessa voce di prima, già parla del successo dell'ennesima conferenza sulla produzione dell'olio d'oliva.

sabato 22 settembre 2012

Il taxi in arrivo

“Siamo in nove. Per cui resto io”.
Può sembrare una scusa per separarmi dal gruppo e forse lo è. Abbiamo prenotato due taxi, ma solo all’ultimo momento quando sono arrivati all’albergo ci siamo accorti che bastano per otto persone. “Resto io” dico, “ho un appuntamento in centro. Chiedete per favore a uno dei due tassisti di tornare indietro a prendermi.”
“Ma poi vieni con noi?”
“No” rispondo, “mi spiace ma devo andare da un’altra parte”.

Così partono e resto solo sul marciapiede davanti all’albergo. Quanto dovrò aspettare? Non saprei, non ne ho idea. Mi viene in mente quella sera in cui in pieno centro a Porto ho chiesto a un tassista di tornare a prendermi dopo due ore nello stesso posto in cui mi aveva lasciato. Pioveva. Si certo, mi dice il tipo. Lo sto ancora aspettando…

Cammino avanti e indietro sul marciapiede di fronte all’albergo. Male che vada ne avrò per una mezz’ora. Attendere. Camminare e attendere. Potrei approfittarne per sistemare quello che è rimasto a lungo confuso in testa. Mentre cammino godendomi quest’aria tiepida e il sole del tramonto mi dico che dovrei prendermi un giorno per fare una camminata, magari in montagna, seguire una strada che serpeggia tra campi e boschi, perdermi lungo un crinale.

Camminare per camminare. Camminare per mettere in ordine i pensieri. Come quel pensiero che  riguarda te e che da troppo tempo mi ronza in testa. Già adesso, passeggiando avanti e indietro sento che le cose trovano un equilibrio. Finalmente potrei giungere a un modo per chiarire, prima di tutto con me stesso. Riuscirei a venirne a capo, a sciogliere questa matassa, questo filo che ho lasciato imbrogliato in un angolo della testa, come un rebus irrisolto solo perché non mi sono mai deciso a prendermi il tempo per risolverlo. Sempre con la scusa o il pretesto di essere distratto da altro, mai seriamente intenzionato ad affrontarlo. Risolverlo prima con me stesso e poi dirtelo, chiamarti, trovare le parole adatte, parlartene con calma.

E proprio adesso che penso a questo arriva il taxi.

sabato 15 settembre 2012

Ho rivisto i tuoi occhi

Ho rivisto i tuoi occhi un pomeriggio di fine marzo sul viso di una ragazza seduta nel mio stesso scompartimento sul treno diretto a Varsavia. Quello sguardo severo non so se dovuto alla miopia o a una propensione indagatrice. Quegli occhi che fissano istantaneamente qualcosa, che diventano una sottile fessura come gli occhi di un rapace prima di ghermire la preda e non mollano l’oggetto in questione, la persona, il dettaglio, fino a quando qualcos’altro infinitesimale e insignificante li distoglie.

sabato 8 settembre 2012

Jack, il pinguino e io

Jack, mentre andiamo in macchina da un cliente, mi racconta del documentario sui pinguini che ha visto ieri sera. Il pinguino maschio passa l’intero inverno a covare, immobile al freddo, sotto bufere di neve e vento sferzante, mentre la pinguina se ne va in giro a nuotare e a caccia.
“Cavolo” dice Jack “quel povero fottuto pinguino tutto il tempo fermo sotto le intemperie…”

Ascolto e non ascolto Jack. Ho la testa altrove. In più non è facile seguire il suo scozzese stretto. Fuori dal parabrezza mentre andiamo a qualcosa come cento miglia all’ora scorre il paesaggio a nord di Dundee, insolitamente squallido per essere in Scozia. Piove, il cielo uniformemente grigio sfuma in nebbia all’orizzonte, ma penso che questo sia niente in confronto all’Antartide.

“Questo fottuto pinguino” continua Jack non accorgendosi che ho perso il filo “se ne resta fermo come un coglione con quest uovo sotto la pancia”.

L’immagine del pinguino ce l’ho ben chiara davanti agli occhi anche se non ho visto il documentario. Solo il pensiero di restare immobile mentre imperversa una bufera mi fa raggelare. Mi viene in mente la neve che ho visto a Riga in Lettonia a fine marzo, mentre in ufficio al caldo cercavo di dirimere un contenzioso tra un cliente e un mio collega tedesco. Nevicava con un vento forte. I fiocchi sfrecciavano davanti alla finestra in orizzontale senza nessuna possibilità di cadere a terra. Per questo povero pinguino, lui in mezzo a una caterva di suoi simili, dev’essere uguale: giorni e notti all’addiaccio con la neve sparata dritto negli occhi.

Annuisco a Jack, pur non seguendolo da un minuto abbondante e non sapendo bene se mi riferisco a quella del pinguino o alla nostra gli rispondo riprendendo le sue ultime parole: “fucking life”.

sabato 21 luglio 2012

Sopra Marsiglia

“Cos’è questo rumore?”
“Di solito i motori fanno così quando finisce il carburante” dice lei.
Guardo d’istinto la turbina dell’aereo fuori dal finestrino. Non vedo fumo, niente di strano. In fondo se il carburante è finito è logico che non ci sia fumo. Giù a terra vedo la costa della Francia, un’enorme città portuale. Dev’essere Marsiglia.
Vorrei chiederle se le è già capitato, vista l’immediatezza della sua risposta. Ma sto al gioco e le dico: “Ci sarà un distributore in zona?”
“Ci vorrebbe un rifornimento in volo” mi risponde seria, ma tranquilla.
“Potremmo planare” dico io: “tratteniamo tutti il fiato, cerchiamo di essere il più leggeri possibile e planiamo sul mare. Mi ricordo di un comandante americano che è riuscito a farlo nella baia dell’Hudson tra battelli e motoscafi.”
“Me ne ricordo pure io” dice lei impassibile, tradendo un sorriso “ma lui quella volta era appena decollato e noi siamo troppo alti”.
Tutti gli altri passeggeri a bordo sono calmi. Il comandante non dice niente, nessun annuncio. Per cui me ne sto tranquillo pure io e aspetto che il rumore delle turbine torni normale.
“E’ il momento di esprimere i desideri” le dico provocatorio, “visto che tra poco non ci saremo più…”
“Un bicchiere di champagne” dice lei allungando il collo sopra gli schienali per cercare l’hostess.
Mi guarda in attesa che io esprima il mio. Mi sporgo verso di lei e la bacio.


martedì 10 luglio 2012

Ancora in fila alle Poste

Ancora in fila alle Poste. Una bolletta scaduta da un paio di settimane, quella che non mi decido mai a presentare in banca per avere l’addebito in automatico. Mio figlio resta nei paraggi. Un responsabile del marketing delle poste dopo aver visto persone disperatamente in attesa per secoli deve avere pensato: e se gli do qualcosa da guardare? Qualcosa da comprare? Per cui ultimamente hanno organizzato una sorta di negozio bancarella. Mentre aspetto il mio turno con il numero in mano mio figlio rovista tra libri, riviste per bambini, giocattoli e oggetti inutili. Torna dopo neanche un minuto e mi chiede se gli compro un giocattolo enorme. Non so se inaridito dall’attesa, illuminato da un’intuizione, o intenzionato a fornire pure a lui qualcosa per ammazzare il tempo gli dico: guardalo e sogna di averlo.

Picture from hotel window: Algeri

venerdì 6 luglio 2012

Un'umanità derelitta

Un’umanità derelitta. Un girone qualsiasi dell’inferno dantesco senza nemmeno Virgilio con cui fare due chiacchiere. La coda al supermercato il venerdì sera con una sola cassa aperta…
Sono in fila all’ufficio postale per pagare una bolletta.

sabato 23 giugno 2012

Il mondo finisce oggi pomeriggio alle tre - I

Quel giorno ci avevano detto che il mondo sarebbe finito alle alle tre del pomeriggio. Avevamo trascorso l’intera mattina a giocare a strega in alto in una strada chiusa davanti a casa mia. Il pomeriggio l’avremmo passato in un deposito di bibite abbandonato, all’angolo di via Lametta. Era un luogo circondato da una vecchia rete metallica piena di buchi e di passaggi per cui era facile entrare, percorrere velocemente il cortile infestato di erbacce e nascondersi dietro cataste di casse contenenti vuoti di bottiglie. Bottiglie di aranciata, di cola, di chinotto e d’acqua.
Oltre alle pile di casse c’era un edificio basso, fatiscente, con le finestre dai vetri rotti e le porte sfondate. Si poteva entrare, ma erano pochi quelli che osavano abbandonare la luce del sole per addentrarsi in quel meandro di ragnatele, vetro in frantumi, scontrini sbiaditi e foglie secche. Avevamo sognato più di una volta di trovare dentro all’edificio un tesoro, che per noi, bambini di sei, sette e undici anni, poteva essere anche solo qualche spicciolo, un quaderno ammuffito dove scarabocchiare i piani delle nostre battaglie, una bottiglia ancora intatta. Ma nonostante le ripetute perlustrazioni non abbiamo mai trovato niente. Nemmeno i tappi di bottiglia erano più utili per il nostro gioco cicca e spanna, arrugginiti e piegati com’erano.

Il mondo finisce oggi pomeriggio alle tre - II

Andrea quel giorno era stato il primo a salire sul tetto dell’edificio e da lassù prendeva di mira chi rimaneva a terra con bacche di palma e fogli di carta arrotolati a spirale tirati con la cerbottana. Le bacche erano i proiettili migliori, perfetti per le nostre strette cerbottane. Saccheggiando le palme delle case vicine potevi riempirti le tasche e avere munizioni per lunghe ore di battaglia.
Mi dicevo che da grande avrei piantato una palma nel giardino per avere tutte le bacche che volevo. Poi pensavo che da grande non avrei giocato a cerbottana e che comunque quel pomeriggio alle tre il mondo sarebbe finito.
La notizia ce l’aveva data Emanuele, il più grande del gruppo. Emanuele aveva la stessa età di Andrea, ma sembrava avesse più anni di lui e anche se era il più antipatico aveva una certa autorevolezza. Nessuno gli domandò chi gliel’aveva detto. Ci limitammo a chiedergli a turno se ne era sicuro e lui diceva serio sì, oggi alle tre.

Il mondo finsice oggi pomeriggio alle tre - III

Il cortile del deposito di bibite era circondato da tre enormi pioppi e in quel periodo lasciavano cadere i pappi che creavano una coltre lanuginosa tutto intorno alla recinzione, si appiccicavano ai pantaloni, si infilavano nelle scarpe e qualcuno per gioco li spargeva sui capelli.
La giornata era grigia, senza vento, poche auto in giro e nessuna vecchietta in bicicletta di passaggio: il nostro bersaglio preferito.
Davide, Manuela e io, riparati dietro una catasta di casse, tiravamo qualche sasso in direzione di Andrea acquattato sul tetto e da lui arrivavano regolari e monotoni tiri di bacche che facevano tintinnare le bottiglie vuote o cadevano poco più in la, attutiti dal tappeto di piumini di pioppo. Tutto,  in quel fatiscente deposito di bottiglie, faceva presagire che il mondo sarebbe finito quel pomeriggio.

Il mondo finisce oggi pomeriggio alle tre - IV

Manuela qualche minuto prima delle tre disse di volere andare a casa. Aveva un’aria preoccupata, come se stesse per mettersi a piangere. Io le dissi di restare con noi, che sarebbe stato bello vedere la fine del mondo tutti assieme. Ma non c’era verso di convincerla: lei voleva tornare a casa. Era chiaro che preferiva trascorrere quel momento con i genitori. Si alzò in piedi un istante con il broncio, forse ancora un po’ indecisa. Un tiro di Andrea la prese in piena guancia con una bacca nera che rimbalzò ai suoi piedi. Manuela la raccolse e si mise a piangere. Scappò via di corsa. Per Manuela quella bacca in pieno viso era il pretesto che le serviva per tornare a casa e forse quel tiro bene aggiustato non le aveva fatto poi così male.
Io restai al riparo delle casse con Davide che non parlava e guardava sempre più spesso il suo piccolo orologio.
Pensai ai miei. Mio padre a lavorare, mia madre in casa con mia sorella al sicuro. Mi chiesi come poteva finire il mondo: che fine avrebbero fatto quei tre grandi pioppi le cui foglie più alte tremolavano appena. Che fine avrebbe fatto quel deposito, tutte quelle inutili bottiglie, la mia casa, la mia strada, i miei amici.
Passò un auto di corsa. Ebbi l’impressione che volesse affrettarsi per arrivare prima delle tre. Passò una vecchia in bicicletta, lentamente. L’osservai aspettandomi che le arrivasse addosso una scarica di bacche, ma nessuno tirò.
Mi sporsi oltre la cortina di bottiglie, alzai lo sguardo verso il tetto del deposito. Andrea se n’era andato e solo allora mi accorsi che anche Emanuele non c’era più. Ritornai giù a terra vicino a Davide che con aria smarrita mi disse sono le tre. Guardai il mio orologio che faceva le tre e dieci, ma non dissi niente a Davide. Mi strinsi a lui fingendo di dovermi ancora riparare dai tiri di Andrea. Guardai a lungo in alto le cime dei pioppi con le foglie che ondeggiavano indolenti. Aspettai ancora un po’ poi dissi a Davide, dai, andiamo a giocare a cicca e spanna.

domenica 10 giugno 2012

da Beirut

A Sunday smile: http://youtu.be/gb2YYKYDtkA

Questa volta il ristorante

Questa volta il ristorante al confine tra Germania e Olanda è frequentato da mummie over ottanta. Il menù ha una pagina intera di piatti italiani per chi ama osare. Io mi tuffo sul tipico e stavolta dai, non mi faccio nemmeno il segno della croce.

sabato 2 giugno 2012

Domenica mattina

Esco a fare due passi sotto la pioggia. Percorro un buon tratto di marciapiedi e portici prima di incontrare qualcuno. E’ domenica mattina presto e questo tempo uggioso scoraggia la maggior parte delle persone a uscire di casa.
Trovo qualche anima viva in piazza. Un ragazzo che appoggia la macchina fotografica su una panchina di marmo per farsi una foto da solo. Non ha l’ombrello. Diluvia, ma nonostante questo si mette a lungo in posa, in piedi, a tre metri dalla macchina con il palazzo del comune e le due colonne della piazza alle spalle. Vista la distanza il palazzo e le colonne nella foto devono venire lontanissimi. Infatti non sembra convinto del risultato. Prova e riprova nuovamente.
Un gruppo di turisti bardati di impermeabili sembra indeciso su quale direzione prendere. Temporeggiano accalcati e infreddoliti sotto il portico. Un ragazzo di colore che vende ombrelli li segue interessato.
Entro in un Caffè e sono ancora sulla porta d'ingresso che la barista mi dà il buongiorno e mi chiede cosa voglio. Ci sono bar in questa città di provincia dove a volte la cortesia è tale da farmi sospettare di ritrovarmi in una scena del Truman show.
Ordino un caffè. Chiedo scusa a una signora che ho bagnato chiudendo l’ombrello, niente niente, dice lei, si figuri. Pare contenta che finalmente qualcuno le rivolga la parola.
Ci sono clienti attorno al bancone, altri seduti ai tavolini. Hanno tutti un’aria gentile, sembrano eccitati dalla pioggia, parlano a voce alta.
In fondo mi basta poco per trovare un equilibrio e dare un senso a questa mattina: bere un caffè in un bar, osservare i movimenti delle persone, sfiorare per un istante la loro vita che mi passa accanto.
Di rientro dal centro incontro un collega che mi chiede cosa faccio in giro a quest’ora con questo tempo. “Porto a spasso il cane” gli dico. “Quale cane?” dice lui, “non pensavo ne avessi uno”. “Mai avuto un cane. E tu?”. “Vado a comprare le sigarette” mi dice sorridendo. So che non fuma.

domenica 27 maggio 2012

Il foglietto in tasca

C’è quest’uomo seduto in treno di fronte a me. Non fa altro che estrarre un foglietto dalla tasca interna della giacca e appuntare qualcosa rapidamente. Dev’essere una parola. Forse un segno. Apparentemente a intervalli regolari. In realtà a volte ogni dieci minuti, altre ogni pochi secondi. Si accorge che non posso fare a meno di notarlo. Per cui gli chiedo per curiosità di che cosa si tratta.
Dice che segna una x ogni volta che pensa a una persona. La sera, prima di andare a dormire, ne fa il conto.
Vorrei sapere chi è questa persona a cui lui pensa a intermittenza. Mi legge la domanda negli occhi e mi dice senza che io apra bocca: “E’ una che mi ha lasciato.”
“Quante sono le x a fine giornata?” gli chiedo a questo punto, entrando in confidenza.
“All’inizio erano centinaia” mi dice lui con un’espressione del volto tra il sollievo e la disperazione. “Ora siamo sulle sessanta” aggiunge dopo qualche secondo di silenzio.
Mi verrebbe da chiedergli se ha un’obiettivo, ma sarebbe una domanda stupida. Però vorrei sapere se c’è una soglia sotto la quale smetterebbe di annotare tutte queste x.
“Voglio essere pronto” mi dice lui, di nuovo senza che io gli dica nulla. “Pronto in che senso?” chiedo.
“Se mai avrò modo di incontrarla e lei mi chiederà se la penso… le posso dire con esattezza quante volte al giorno appare nei miei pensieri”.
“E se l’incontra e lei non glielo domanda?” gli dico provocatoriamente.
“Non importa” dice lui “è una cosa che in fondo serve più a me e ogni sera fatto il conto butto via il foglietto.”

mercoledì 16 maggio 2012

Hastings

Quella sera a Hastings disteso sulla panchina all'angolo di Alfred Road attendevo sereno che un rumore di passi annunciasse la tua venuta. Con lo sguardo scorrevo un cielo nordico tra aghi di pino e osservavo trasognato l'orizzonte: una Manica fosca, l'isola immobile come un’immensa nave alla fonda nell’oceano calmissimo.
Fu il muso di un cane a spaventarmi. Me lo ritrovai a una spanna dal naso che fiutava incuriosito mentre il padrone cercava di trattenerlo strattonando il guinzaglio. Due ragazze in cerca di informazioni mi distolsero definitivamente da quella vista e da un’irripetibile stato di meraviglia.
Infine il tuo arrivo inatteso e la smorfia di disgusto segnata sul tuo viso per la pessima cena.

martedì 15 maggio 2012

Il turco in fiera

Parlo con Alessandro in fiera a Parigi quando si avvicina un cliente. Ci dice qualcosa in una lingua che non conosciamo. Io parlo sette lingue e Alessandro, di origine greca, trapiantato in Italia, almeno tre. Per cui assieme abbiamo a disposizione una decina di lingue. Gli chiediamo se si può spiegare in inglese, in francese. In spagnolo, russo, greco, polacco, portoghese, niente. Niente da fare. Capiamo che è turco. Ci chiede se parliamo turco. Alessandro e io ci guardiamo negli occhi con l’aria di pensare esattamente la stessa frase. Ma non la diciamo, anche se il nostro amico non l’avrebbe comunque capita.

lunedì 7 maggio 2012

Lo spettatore del 2000

Ti ho vista arrivare a piedi dal fondo di via Alberoni con lo spettatore del 2000 che ti seguiva un paio di metri alle tue spalle. Ricordo che affrettavi il passo col tuo tipico ondeggiare un po’ a destra e un po’ a sinistra, mentre lui pedalava lentamente su una vecchia bici guardando fisso a terra davanti a sé. Anche se aveva l’abitudine di importunare le ragazze è sempre stato innocuo. L’ho visto in azione una della prime volte ad un convegno cinematografico intitolato in maniera avveniristica “Lo spettatore del 2000”. Lui era in una delle prime file e durante il congresso non ha fatto altro che fissare una donna seduta dietro, dando le spalle all’oratore. Uno sguardo fisso, inespressivo, un po’ da pesce. Da allora lui per me è lo spettatore del 2000.
Mi serve a ricordare l’immagine di te che mi vieni incontro con l’aria scocciata, ma felice di vedermi.

venerdì 27 aprile 2012

Non lo vedevo da una vita

Non lo vedevo da una vita. Forse di più. E visto che per me era troppo tempo mi sono deciso a chiamarlo.
Lo chiamo per sapere come vive, cosa fa, e questi dieci anni per lui non sembrano trascorsi. Salvo il fatto che ha viaggiato, visitato paesi nuovi e ora parla o dice di parlare quattro o cinque lingue in più. Gli credo.
Ci diamo appuntamento in un caffè del centro. Mi regala subito il suo nuovo libro prima ancora che la cameriera si presenti al nostro tavolo per prendere l’ordinazione. Apre il libro per scrivermi una dedica e resta assorto qualche secondo non sapendo bene cosa scrivere.
Gli dico che è lo stesso, non importa. Pure a me non viene in mente niente: è passato tanto tempo.
Parla solo lui. Parla di sé. Non occorre che gli faccia domande. Mi dice che i dialetti della Bosnia e del Montenegro hanno alcune parole uguali mentre altre sono assolutamente dissimili. Mi fa diversi esempi, oscuri grovigli di consonanti impronunciabili.
Tornato a casa mi sdraio sul divano e leggo il libro. È una raccolta di poesie su cavalieri e sovrani in lotta per spartirsi il territorio di antiche regioni dai nomi sconosciuti: la Livonia, l’Ingria, la Lusazia. Cori che invocano eroi epici dalla vita breve, effimera come le estati del nord. Alcuni passaggi del libro mi fanno pensare a un testo sognato in una lingua inesistente e da questa fedelmente tradotto. 
Mentre leggo mi chiedo se tra dieci anni avrò di nuovo voglia di chiamarlo.

sabato 14 aprile 2012

Claudio

Claudio, quando lo si incontrava a pranzo alla mensa aziendale, era sempre uno dei primi o uno degli ultimi ad arrivare. Se gli si chiedeva come va? per pura circostanza, rispondeva invariabilmente “bene, questo è il paradiso”. 
La mensa – uno stanzone senza pretese illuminato al neon nei giorni di pioggia e con il tetto rivestito in eternit – offriva una varietà dignitosa di primi, secondi un po’ così, contorni e persino frutta, tuttavia niente di significativo o che potesse ricordare il paradiso. Ma Claudio non era ironico. Veniva da lunghe trasferte in Kazakistan, Cina, Russia, e Dio solo sa che piatti gli si presentavano, che ristoranti. Sere solitarie in una camera d’albergo con il dubbio se rimanere alla finestra a guardare l’orizzonte e affrontare i morsi della fame o farsi il segno della croce, scendere al piano ristorante, magari al sushi bar per ingollare quello che capita tra gli sguardi neutri del personale e le occhiate interessate delle puttane che ti osservano con l’aria di conoscerti da sempre.
Così mi ritrovo a pensare a Claudio e mi immagino per un istante il paradiso come la mensa aziendale. Un camerone semivuoto con le pareti piastrellate, il soffitto a pannelli di legno trucciolato, i tavoli in formica e la signora robusta in grembiule dietro al banco che ti dice decisa e con un forte accento dialettale: “Cosa ti do?”

venerdì 13 aprile 2012

Berlino

Sono in centro a Berlino, fermo sul marciapiede in attesa del semaforo verde per i pedoni. Sull’altro lato della strada un uomo di mezza età, anche lui vicino al semaforo, mi guarda sorpreso, come se mi riconoscesse. Mi indica con un dito, alzando il braccio destro in orizzontale, come a dire tu, proprio tu.
Scattato il verde mi viene incontro senza togliermi gli occhi di dosso. Resto fermo sul marciapiede, immobilizzato dal suo sguardo, forse imbarazzato perché cercando nella memoria non riesco a trovare questa persona che ha l’aria di conoscermi da sempre.
Attraversate le strisce pedonali mi raggiunge, sempre guardandomi fisso. Mi aspetto che mi dica finalmente, da quanto tempo non ci vediamo… Ma mi chiede se sono lì per turismo, se conosco già la città e per quanto tempo penso di restare. Formulate queste tre domande a bruciapelo la sua sopresa nel vedermi e la sua curiosità nei miei confronti sembrarono esaurirsi.
Gli rispondo che sì sono lì per turismo, per la prima volta e resto una settimana. Dallo sguardo attonito con cui mi ascolta penso per un istante che non sia del tutto a posto. E in effetti, senza chiedermi altro, senza salutarmi, se ne va proseguendo per la sua strada.
Nel frattempo è riapparso il semaforo rosso per i pedoni. Devo aspettare un altro minuto prima di attraversare. In questo minuto d’attesa ripenso all’incontro e già non ricordo i lineamenti di quest’uomo, non sono in grado di dire se sia una persona sciatta o in qualche modo elegante. Se lo incontrassi di nuovo per strada tra qualche giorno non lo riconoscerei e probabilmente lui non riconoscerebbe me. Mi guarderebbe sorpreso trasmettendomi di nuovo l’impressione di incontrare qualcuno che non vede da tempo e chissà, forse mi farebbe le stesse tre domande.