mercoledì 28 dicembre 2011

Libri in prestito

Prendo la maggior parte dei libri in biblioteca. Nella libreria di casa non ce ne stanno più e a un certo punto mi sono ripromesso di non comprare più libri, per una pura questione di spazio.
In biblioteca richiedono sempre di non annotare nulla sulle pagine dei libri in prestito. Trovo che questa raccomandazione sia un peccato. Perché mi incuriosiscono le note e gli appunti scritti a margine dei racconti o dei romanzi che prendo in prestito. Un giorno, giusto per fare un esempio, leggendo Il mio mondo è qui di Dorothy Parker, un libro di racconti dove l’autrice narra per lo più di amori impossibili, di coppie in crisi, di tradimenti, ipocrisie, gelosie e pettegolezzi, ho incontrato in cima a una pagina questa nota scritta con una calligrafia femminile: ore 11.00 spegnere brodo.

lunedì 19 dicembre 2011

Al bar sotto i portici

Al bar sotto i portici del palazzo vicino alla stazione. Le due bariste dietro al banco parlano tranquille, una spolverando a caso attrezzi e ripiani, l'altra giocando con una spugna, torcendola e sbattendola sul palmo della mano. Io, l'unico cliente, chiedo un gelato panna e cioccolato e siedo un po' in disparte, con gli occhi puntati verso l'esterno. Scorrono davanti alla vetrina innumerevoli persone, tutte con passo frettoloso. Vanno e vengono dalla stazione. Qualcuno getta un’occhiata dentro attraverso la porta spalancata o il vetro della vetrina tra scritte colorate e insegne luminose. Qualcuno getta due occhiate. Sembrano studenti, uomini d'affari, impiegati e sfaccendati che sfilano e scompaiono oltre l'esiguo riquadro del bar.
“Poi non l'ho mica comprato” dice la barista bionda all’altra, “è di un colore che non mi convince. Rosso, ma non proprio rosso”.
Ha una voce squillante, cantilenante, un forte accento dialettale, difficile non ascoltarla. “Che colore?” chiede l'altra per cortesia, vagamente interessata.
In questo istante termina una languida canzone alla radio, casuale ma adeguato sottofondo, per cedere il posto ad una voce maschile che in scioltezza, come di regola, aggiorna sulle guerre, stragi, attentati, previsioni del tempo e disco della settimana.
Le bariste incuranti continuano la loro discussione: “Un rosso opaco, strano, forse adatto per la sera...”.
“Ruggine?” chiede la barista dai capelli castani, leggermente tarchiata, smettendo di strofinare, forse davvero intenzionata ad avere una risposta più precisa.
“Rosso...” continua la bionda, sempre con aria vaga, quindi esce da dietro il bancone del bar, passa davanti a me e si avvicina alla vetrina delle caramelle. Guarda attentamente i pacchetti, finalmente ne prende uno tutto ricoperto di pallini colorati, indica con l'indice un minuscolo pallino: “Questo” dice apatica, “questo qui”.
La gente fuori continua a passare.
Resto per qualche momento imbambolato, con la carta del gelato in mano, come stordito dalla scena. Mi alzo dalla sedia, vado alla cassa. La barista castana mi guarda benevola: “Gelato e spettacolo fanno due euro”.

da Smashing Pumpkins

Take a day, plant some trees, may they shade you from me

(Blank page, Smashing Pumpkins)

lunedì 12 dicembre 2011

An eye on Africa

A colazione la sala è gremita di persone, per lo più adulti, anziani in pantaloni corti al ginocchio e qualche raro uomo d’affari in camicia e cravatta. Tutti presi dal buffet che prevede tre marmellate differenti, almeno per colore, uova sode e strapazzate, pane, pure questo di tre tipi, paste, yogurt, latte e caffè alla macchinetta.
Scelgo la marmellata scura, presumo di ciliegie, lo yogurt ai frutti di bosco e due girelle con uva sultanina sperando non deludano le mie aspettative.
Mi siedo in un angolo verso la parte sinistra della sala da dove posso vedere più o meno tutti. Al centro della parete uno schermo a muro trasmette le notizie della CNN. Passano immagini di bombardamenti, fumo che si leva in lontananza dai quartieri di una città fatta di edifici bassi.  Poi immagini di arsura, di bambini che camminano al tramonto portando sul capo recipienti pieni d’acqua. Il titolo che scorre in basso dice An eye on Africa.
Mentre sto finendo lo yogurt mi accorgo che tutti hanno gli occhi levati verso lo schermo, alcuni con aria preoccupata. Guardo anch’io. Stanno passando le previsioni del tempo.

mercoledì 7 dicembre 2011

Questa sera sono a cena da solo

Questa sera sono a cena da solo. La cameriera dice prego ogni volta che posa un piatto sul tavolo. Lo dice meccanicamente senza levare lo sguardo. Le sue sono brevi incursioni nella sala degli ospiti. Assolve al suo compito in maniera veloce. Il servizio non prevede dialogo. Chissà perché ma mi ricorda una monaca che dispone religiosamente soprammobili e suppellettili pensando ad altro.
Dei sei tavoli della sala cinque sono occupati. L’uomo solo in un angolo, uscito per fumare una sigaretta, è rientrato barcollando. La sua caraffa da mezzo litro di rosso in effetti è vuota. Nel calice restano due dita di vino. Per ammazzare il tempo estrae dal portafoglio carte di credito e documenti. Fa questo con aria sorpresa, come se non riconoscesse se stesso nel nome stampato su quelle carte. È straniero. Direi mediorientale, non potendo stabilire con certezza se cipriota, libanese o siriano.
Nel tavolo dell’altro angolo una ragazza e due uomini parlano del niente alternando inglese e italiano. Li sento distintamente parlare di ricette, vini francesi, vacanze, soprannomi, meteo e altro sul quale non riesco a concentrare l’attenzione per più di qualche secondo. Probabilmente una cena di lavoro.
Il signore del Middle-East decide di intaccare la brocca dell’acqua.
Al mio fianco altri tre si sono seduti da poco: un altro tavolo con una ragazza, un ragazzo e un adulto. La ragazza è stata l’unica a salutarmi entrando: per pura circostanza ha pronunciato un impercettibile bonsoir. Poi la sua voce non si è più sentita. Parlano solo i due uomini, in italiano con un accento meridionale. Il ragazzo dice che è fuori per lavoro quindici sere al mese e questo gli rende sempre più difficile fare sport. Questo è tutto quello che ho colto.
Parlano di sport anche nel tavolo di fronte a me: sono amici del titolare e il titolare appena arrivato mangia con loro. Sono quelli più presi dal cibo che dalla conversazione e la donna seduta al tavolo è l’unica a tenere banco: dice che Milano è diversa.
Ora nel bicchiere dell’uomo mediorientale resta solo un dito di vino rosso.
Io scrivo.

da Hemingway

Now he would never write the things he saved to write until he knew enough to write them well.

Ora non avrebbe mai più scritto le cose che aveva rimandato a quando avesse avuto l’esperienza sufficiente per scriverle bene.

(Hemingway, The snows of Kilimanjaro)

lunedì 5 dicembre 2011

Conversazione alla reception di un albergo

Quando studiavo – dice lei - mentre ero all’università, pensavo che da grande avrei viaggiato molto. Tu sei fuori spesso per lavoro, vero? Pensavo, anche se vagamente, che avrei fatto un lavoro come il tuo. Nel senso che non sapevo bene che lavoro avrei voluto fare, ma sicuramente immaginavo un lavoro in cui avrei viaggiato molto.
Guarda che sei ancora in tempo – le dice lui accennando un sorriso.
Ma adesso non ne ho voglia - dice lei - non so. Non ci penso. Non è qualcosa che mi manca, o che vorrei fare.
Io non mi sono ancora stancato di viaggiare – dice lui - ma ti assicuro che più passa il tempo, più viaggio e più i luoghi si assomigliano. Gli aeroporti, le piazze delle città dove i turisti ammazzano il tempo, i palazzi visti dai taxi o dalle finestre di un albergo. E’ impressionante, credimi, quanto il mondo si assomigli.
Lei ora non dice niente. Sembra pensare.
Sai una cosa? - continua lui - mi capita di pensare a questo: se faccio un conto rapido, approssimativo, penso di avere preso un duemila aerei fino ad ora. E’ semplice: due, tre viaggi al mese, quasi sempre con uno scalo intermedio, fa almeno un dieci aerei al mese. Se tolgo le ferie del periodo estivo e Natale, calcolo dieci mesi. Cento aerei all’anno. Faccio questo lavoro da vent’anni ormai, quindi non credo di sbagliare più di tanto. Ma non è questo che volevo dire. Mi capita di pensare che per tutto questo tempo sono stato io ad andare in giro, a visitare clienti, a incontrare gente, a frequentare fiere, a fare vedere la mia faccia a persone più o meno interessate, più o meno prese da quello che avevo da dire o da presentare. Certo, si tratta di lavoro, quindi con tutte queste persone che ho incontrato e che continuo a incontrare mi limito ad un rapporto formale. Raramente entriamo in dettagli che riguardano la propria vita, i propri gusti, quello che uno pensa veramente. E adesso mi ritrovo a pensare a questo: che ad un certo punto mi piacerebbe smettere di girare e vorrei che fossero gli altri a venire da me. Un po’ come nel tuo caso.
Cioè? – chiede lei.
Tu sei qui, in questo albergo, in questo quartiere, in questa città di provincia. Non hai bisogno di viaggiare per lavorare. Sono gli altri che vengono da te a fare vedere la loro faccia – dice lui.
Beh, si, ho capito, ma non credere che questo sia entusiasmante – dice lei. Poi lei si accorge che gli occhi di lui hanno un’espressione vagamente offesa. Certo – continua lei con un tono ironico - a parte poche, pochissime persone, non è che io faccia grandi incontri.
Lui vorrebbe chiederle se è tra questi pochi-pochissimi, ma non lo dice, anche se questa domanda probabilmente lei la coglie dal suo sguardo.
Mettiamola così - dice lei: tu sei una persona che gira il mondo, mentre io sono una persona a cui il mondo gira intorno. Il quadro forse non cambia, nel senso che entrambi abbiamo la possibilità di fare incontri, di conoscere anche solo superficialmente persone noiose, più o meno interessanti o che ci lasciano indifferenti.
L’unica differenza forse – dice lui - è lo sbattimento per chi viaggia: l’autostrada, le attese in aeroporto, gli aerei, i treni, i taxi, le strade provinciali, gli autogrill, le catene commerciali, gli alberghi…
Gli alberghi di provincia… - dice lei sorridendo - guarda che se preferisci altri alberghi non mi offendo sai?
Un posto vale l’altro – dice lui, ma non si capisce cosa voglia intendere e in definitiva appena pronunciata gli sembra di aver detto una frase fuori luogo.
Bene – dice lui dopo qualche secondo di silenzio - anche se ti ho detto che girando il mondo alla fine è tutto uguale, non è vero che un posto vale l’altro, non è proprio così, credimi.
In questo momento arriva qualcuno alla reception dell’albergo, è una coppia di turisti americani.
Hai ragione - dice lei - gli americani per esempio vanno pazzi per quest’albergo, abbiamo diversi ospiti fissi, molti tornano qui anche a distanza di anni e non se ne andrebbero mai.
Mi sento un po’ americano sai? dice lui. Un giorno – continua lui prendendo il trolley prima di incamminarsi verso l'ascensore - ti dico una cosa sul fatto di sentirmi americano.
Dimmela adesso dai - lo incalza lei incuriosita.
No, ora hai questi clienti - dice lui. Se me ne dimentico ricordami solo che ha a che fare con il latte: io che mi sento americano e il latte.
Lei è incuriosita, ma è costretta a salutarlo: la coppia di turisti americani ha raggiunto la reception.

giovedì 1 dicembre 2011

Tra i miei desideri

Tra miei desideri c’è questo: quando vedo un aereo in cielo vorrei sapere dove va.

mercoledì 30 novembre 2011

Mi piace fare questo gioco

Mi piace fare questo gioco. Mi metto in un angolo della piazza o in fondo a una delle vie del centro. Resto in piedi e aspetto. Do l’impressione di attendere qualcuno, ma in realtà lo faccio di mia spontanea iniziativa, mica perché io abbia un appuntamento.
A volte dopo una buona mezz’ora, altre volte giusto dopo dieci minuti che sono lì fermo ad aspettare, arriva un'amica, un amico, un conoscente, un compagno di classe delle superiori e mi dice ciao, cosa fai qui?

Ti aspettavo, gli rispondo.


Il signor Tibor Fried

Il signor Tibor Fried mi faceva foto sbiadite che mi consegnava felice il giorno seguente. Per lui era naturale immortalare qualsiasi persona conoscesse e fargli dono della foto, come a suggellare una relazione duratura. Il risultato era un mix dovuto alla sua mano un po’ tremante, alla pellicola vecchia di decenni e ad acidi per lo sviluppo troppo diluiti o scaduti da chissà quando. Così, anche se fresca di un giorno, la foto aveva i colori di una stampa dimenticata al sole per un’estate intera.
Quella che conservo mi ritrae immobile vicino a una roulotte da campeggio che il nostro agente ungherese usava in fiera. Con vestiti invernali dove si intuisce a malapena il blu della giacca e meno il colore dei pantaloni. La mia faccia senza lineamenti, l’espressione indecifrabile, la luce soffusa nonostante fosse pieno giorno. Tutto questo rende ancora più improbabile che possa essere io la persona ad essere fotografata, che abbia conosciuto il signor Fried e sia stato in primavera a Budapest alla fiera campionaria.

Amsterdam

La fitta rete delle tracce lasciate dagli aerei appena decollati sul cielo di Amsterdam mi ricorda – Agostino – le partite di Shangai che facevamo nella penombra della tua camera.
Allora ero geloso degli sguardi rapiti che avevi per mia sorella e della tua abilità nello sbrogliare l’intrico di bacchetti bianchi sul tavolo. Ma era il tuo modo estasiato di vedere il mondo, la tua sconfinata calma nel giocare con noi bambini ad affascinarmi. Era qualcosa che da adulto avrei voluto avere.
Ora non ci sei più. Nessuno gioca più a Shangai. Le tracce degli aerei sul cielo di Amsterdam svaniscono riassorbite dall’azzurro.

Janusz va al mercato

Janusz va al mercato di Varsavia il sabato mattina. Lo decide già la sera del venerdì, tornando a casa dal lavoro mentre guida, fermo in lunghe colonne di traffico. È un pensiero che gli affiora da solo alla mente e non ha nemmeno bisogno di pensarci: decide che la mattina dopo va al mercato e per pochi soldi compra un piccione. Non spende mai la stessa cifra. In fondo sono diversi anche i piccioni che compra. Lo sceglie e indica al venditore quello che vuole. Prima paga, poi rimette in tasca il portafoglio. Prende il piccione e si allontana fino all’angolo della piazza. Sale su un marciapiede. Quindi libera il piccione e lo segue con lo sguardo fino a quando non scompare dietro le case.
Janusz dice che fa questo perché gli piace e perché lui a casa sua non ha piccioni.

Ogni volta che lo incontro

Ogni volta che lo incontro mi chiama con un nome diverso. Abita dalle mie parti e se lo incrocio di ritorno dal centro mi saluta sempre volentieri. Ha l’aria di uno indaffarato, una cartella in mano di quelle scure, leggere, una sporta della spesa, un paio di libri.
Tempo fa gli ho prestato una grammatica di lingua russa, il Pulkina breve. Mi sono ripromesso di ricordarglielo e di richiedergli indietro il libro, ma alla fine ho lasciato perdere. Penso che lui non si ricordi e anche se si ricordasse non mi sembrerebbe il caso di chiederglielo. E’ un libro che in fondo non leggerei più.
Lui ogni volta mi chiama con un nome diverso, non ha importanza quale. Probabilmente lui stesso non se lo ricorda. Forse si aspetta che io lo corregga, ma non lo correggo.
Ora che ci penso qualche anno fa mi ha chiesto di fargli una telefonata a Pietroburgo. Mi ha accompagnato in un appartamento vicino alla stazione, ha composto il numero che aveva scritto su un biglietto spiegazzato e mi ha chiesto di salutargli una ragazza. Ma quel numero di telefono suonava a vuoto.  Nonostante vari tentativi, dall’altra parte non rispondeva nessuno.
Mi chiedo inutilmente se in seguito ha riprovato lui da solo.