Quel giorno ci avevano detto che il mondo sarebbe finito alle alle tre del pomeriggio. Avevamo trascorso l’intera mattina a giocare a strega in alto in una strada chiusa davanti a casa mia. Il pomeriggio l’avremmo passato in un deposito di bibite abbandonato, all’angolo di via Lametta. Era un luogo circondato da una vecchia rete metallica piena di buchi e di passaggi per cui era facile entrare, percorrere velocemente il cortile infestato di erbacce e nascondersi dietro cataste di casse contenenti vuoti di bottiglie. Bottiglie di aranciata, di cola, di chinotto e d’acqua.
Oltre alle pile di casse c’era un edificio basso, fatiscente, con le finestre dai vetri rotti e le porte sfondate. Si poteva entrare, ma erano pochi quelli che osavano abbandonare la luce del sole per addentrarsi in quel meandro di ragnatele, vetro in frantumi, scontrini sbiaditi e foglie secche. Avevamo sognato più di una volta di trovare dentro all’edificio un tesoro, che per noi, bambini di sei, sette e undici anni, poteva essere anche solo qualche spicciolo, un quaderno ammuffito dove scarabocchiare i piani delle nostre battaglie, una bottiglia ancora intatta. Ma nonostante le ripetute perlustrazioni non abbiamo mai trovato niente. Nemmeno i tappi di bottiglia erano più utili per il nostro gioco cicca e spanna, arrugginiti e piegati com’erano.
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