“Ecco il tuo morso oscuro di tarantola: son pronto.”
(Eugenio Montale, Il ritorno)
“Ho fatto un casino.”
Dice questo piangendo. I suoi occhi azzurro mare adesso paiono liquidi, prendono profondità. Le lacrime cadono sul dorso della mano, sul vestito, come se piovesse.
Fuori piove.
Sembra un film. Come nei film tutte le volte che c’è un momento drammatico piove. Dev’essere un espediente cinematografico per dare maggiore intensità alla scena e renderla inequivocabilmente reale. Mi scopro a pensare che nelle sue lacrime ci sia un po’ di fiction, ma cerco di allontanare questo pensiero: non voglio sovvertire regole del cinema comunemente accettate, tanto meno credere che lei stia recitando o che la pioggia fuori sia un artificio.
Ha il viso bagnato. Il rimmel sulle ciglia si scioglie cerchiandole gli occhi di nero. Dice che ha fatto un casino, ma non dice altro.
Preparo due tazze di tè e gliene metto una di fronte sul tavolo. “Attenta che scotta” le dico. Ma non lo tocca, lo lascia raffreddare. E’ come se non avesse sentito la mia voce.
Dice che erano diventati come fratelli lei e suo marito. Lei sempre presa dal lavoro, dalle sue traferte all’estero. Lui che doveva ancora dare alcuni esami all’università. In pratica non si vedevano mai.
Posso solo fare supposizioni. Forse lei ha avuto una storia. Forse è arrivata al punto da non provare più niente nei suoi confronti. Magari con lui ci stava bene. A pensare il peggio ci si prende. Per cui quello che si insinua nella mia mente è che lei sia stata con un altro e lui se ne sia accorto. O che lei abbia fatto in modo che lui se ne accorgesse.
Penso a quanto possa essere doloroso separarsi per due persone che non si vedono mai.
“All’inizio passavamo assieme tutti i fine settimana” dice riprendendosi. “Dormivamo in un appartamento in affitto. Un monolocale soppalcato con una terrazza che dava sul campanile di una chiesa. Le campane suonavano dalle sette di mattina alle dieci di sera.”
Sorride.
“Non c’era bisogno di mettere la sveglia per alzarsi. Un incubo. Ogni ora un tocco forte e la campana piccola per i quarti d’ora. Quando suonava la campana delle sette mi svegliavo di soprassalto. Sette tocchi uno dietro l’altro. Non sono mai riuscita ad abituarmi.”
Improvvisamente diventa loquace. Smette di piangere.
“Qualche domenica andavamo in giro a piedi per il centro a cercare case in vendita. Ne abbiamo trovata una che ci piaceva, l’abbiamo fermata pagando una caparra.”
Beve un sorso di tè. Si soffia il naso con un fazzoletto tutto stropicciato.
“Mi ha fatto arrivare una lettera ingiuntiva da un avvocato. Non vuole darmi un soldo.”
Mi chiedo se farei lo stesso nei panni di lui. Qualcuno mi ha già detto che alla fine di una storia tutto si riduce a una questione economica.
“Cosa devo fare? Dimmi cosa devo fare”.
Si asciuga le lacrime col palmo delle mani.
C’è qualcosa che non mi dice e non me la sento di chiederglielo. In fondo non so niente di lui e poco più di niente di lei. Non mi va di impicciarmi della sua vita.
“Che casino” dice lei, “che casino che ho fatto”.
Ora le lacrime cadono sul piano del tavolo, sul legno liscio, senza nessuna possibilità di evaporare. Restiamo un momento senza parlare. Sono questi momenti di silenzio quelli che preferisco. Mi viene in mente una canzone di Paolo Conte, il titolo dev’essere Un vecchio errore: “Niente di niente… spiegalo alla gente, cosa vuol dire, cosa vuol dire amare l’amore, senza mai fare neanche un errore.”
La guardo negli occhi e cerco di capire che cos’è che non mi vuole dire. Bevo il tè e mi chiedo se mi metterei con una come lei. Non servono altre parole. Fossi il regista di questo film proseguirei con la pioggia fuori e chiuderei con la canzone di Paolo Conte senza aggiungere altro. Sarebbe solo una scena del film, non il finale.
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