“Siamo in nove. Per cui resto io”.
Può sembrare una scusa per separarmi dal gruppo e forse lo è. Abbiamo prenotato due taxi, ma solo all’ultimo momento quando sono arrivati all’albergo ci siamo accorti che bastano per otto persone. “Resto io” dico, “ho un appuntamento in centro. Chiedete per favore a uno dei due tassisti di tornare indietro a prendermi.”
“Ma poi vieni con noi?”
“No” rispondo, “mi spiace ma devo andare da un’altra parte”.
Così partono e resto solo sul marciapiede davanti all’albergo. Quanto dovrò aspettare? Non saprei, non ne ho idea. Mi viene in mente quella sera in cui in pieno centro a Porto ho chiesto a un tassista di tornare a prendermi dopo due ore nello stesso posto in cui mi aveva lasciato. Pioveva. Si certo, mi dice il tipo. Lo sto ancora aspettando…
Cammino avanti e indietro sul marciapiede di fronte all’albergo. Male che vada ne avrò per una mezz’ora. Attendere. Camminare e attendere. Potrei approfittarne per sistemare quello che è rimasto a lungo confuso in testa. Mentre cammino godendomi quest’aria tiepida e il sole del tramonto mi dico che dovrei prendermi un giorno per fare una camminata, magari in montagna, seguire una strada che serpeggia tra campi e boschi, perdermi lungo un crinale.
Camminare per camminare. Camminare per mettere in ordine i pensieri. Come quel pensiero che riguarda te e che da troppo tempo mi ronza in testa. Già adesso, passeggiando avanti e indietro sento che le cose trovano un equilibrio. Finalmente potrei giungere a un modo per chiarire, prima di tutto con me stesso. Riuscirei a venirne a capo, a sciogliere questa matassa, questo filo che ho lasciato imbrogliato in un angolo della testa, come un rebus irrisolto solo perché non mi sono mai deciso a prendermi il tempo per risolverlo. Sempre con la scusa o il pretesto di essere distratto da altro, mai seriamente intenzionato ad affrontarlo. Risolverlo prima con me stesso e poi dirtelo, chiamarti, trovare le parole adatte, parlartene con calma.
E proprio adesso che penso a questo arriva il taxi.
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