Parcheggio l’auto sul lungomare. Ho un paio d’ore da ammazzare in questo pomeriggio di fine inverno.
Attraverso a piedi uno stabilimento balneare chiuso e decido di proseguire lungo la battigia fino alla foce.
Un uomo in acqua setaccia il fondale con un rastrello: deve pescare vongole o telline. E’ intabarrato per il vento pungente nonostante la giornata di sole. Indossa stivali di gomma alti fino alle coscie.
In lontananza mi viene incontro lentamente una coppia di anziani con un cane. Paiono stanchi tutti e tre, cane compreso, come se rientrassero da una lunga camminata. Non si dicono niente, non parlano. Ci incrociamo senza il cenno di un saluto, come se fossimo qui furtivamente: a pescare di frodo, a rubare un po’ di sole, a fare due passi senza che nessuno ci veda.
Sulla spiaggia ci sono i resti delle mareggiate invernali: rami, tronchi, contenitori di plastica, grovigli di corde malandate. Reti da pesca strappate, una boa rossa, conchiglie ovunque.
Le palazzine nei dintorni hanno le tapparelle abbassate e le persiane chiuse. Gli appartamenti disabitati per tutto l’inverno devono essere gelidi e sapere di muffa.
Una barca a vela naviga a motore verso sud, l’albero nudo senza randa, nessuno in vista a bordo. Sulla linea dell’orizzonte spiccano le piattaforme per l’estrazione del gas. Da quella più vicina alla costa arriva regolare il segnale di tre toni brevi e uno lungo per la nebbia.
Alla foce su entrambe le sponde del fiume le massicciate proteggono l’estuario dalle fiumane e dalle onde. Capanni da pesca chiusi. Due persone si riparano dal vento sul retro di un capanno. Sembrano barboni. Fumano stringendosi nelle spalle. Hanno un cane che mi fissa immobile, non mi toglie gli occhi di dosso.
Penso che il mare non ami niente di superfluo e che un luogo come questo non abbia bisogno di parole pronunciate. Qui ogni persona, ogni cosa appare essenziale nella sua futile presenza.
E’ un pensiero come un altro che non posso rivelare a nessuno. Lo tengo per me. Fino ad ora.
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