sabato 14 aprile 2012

Claudio

Claudio, quando lo si incontrava a pranzo alla mensa aziendale, era sempre uno dei primi o uno degli ultimi ad arrivare. Se gli si chiedeva come va? per pura circostanza, rispondeva invariabilmente “bene, questo è il paradiso”. 
La mensa – uno stanzone senza pretese illuminato al neon nei giorni di pioggia e con il tetto rivestito in eternit – offriva una varietà dignitosa di primi, secondi un po’ così, contorni e persino frutta, tuttavia niente di significativo o che potesse ricordare il paradiso. Ma Claudio non era ironico. Veniva da lunghe trasferte in Kazakistan, Cina, Russia, e Dio solo sa che piatti gli si presentavano, che ristoranti. Sere solitarie in una camera d’albergo con il dubbio se rimanere alla finestra a guardare l’orizzonte e affrontare i morsi della fame o farsi il segno della croce, scendere al piano ristorante, magari al sushi bar per ingollare quello che capita tra gli sguardi neutri del personale e le occhiate interessate delle puttane che ti osservano con l’aria di conoscerti da sempre.
Così mi ritrovo a pensare a Claudio e mi immagino per un istante il paradiso come la mensa aziendale. Un camerone semivuoto con le pareti piastrellate, il soffitto a pannelli di legno trucciolato, i tavoli in formica e la signora robusta in grembiule dietro al banco che ti dice decisa e con un forte accento dialettale: “Cosa ti do?”

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